Una città - anno III - n. 20 - marzo 1993

rre anni e undici mesi di carcere per una chiave. Il colleffivo "arcobaleno" e le brigatiste rosse. la fine di qualcosa e la nascita di qualcos'altro. Il racconto di Giuliana Ciani. Cos'è stato per te il 77? Il 77 era questa disponibilità degli uni verso gli altri, questa curiosità. dovuta all'età, per l'aria che si respirava, per le speranze che allora c'erano e adesso non ci sono più, questo desiderio di nuovo, la sensazione che in ogni momento potesse succedere qualcosa di nuovo, di fondamentale, che ogni cosa fosse possibile. Si stava insieme, si fumavano dei gran spinelli, si ascoltava la musica. Poi piano piano si è infiltrata la politica che per me è stata fonte di aberrazione. E poi con essa il mito della organizzazione. Ma c'era l'eroina e di fronte all'eroina ci siamo anche difesi, almeno io e quelli che erano con me, chiudendoci nell'organizzazione che, come una famiglia, ci difendesse dai lupi cattivi: la società da una parte, l'eroina dall'altra. "Per non diventare degli inquadrati o dei peromani facciamo politica". E in ogni "famiglia" poi ci sono i ruoli, e probabilmente il padre, che poteva essere il partito, fra virgolette, è riuscito a imporre la sua volontà. Mi è rimasta impressa questa immagine di noi che,dopo il 77, quando c'erano i latitanti e anche un certo fascino della clandestinità, pur avendo ancora dentro questo senso della ribellione, si andava tutti vestiti bene. Essere contro, ma non darlo troppo a vedere ... Per distinguersi dagli emarginati, che avevano preso la via delle pere, la via dell' India ... E dopo è stato tutt'uno: Brigate Rosse, omicidio Moro, paranoia. Una gran paura che ti fa chiudere ancora più, e così dall'organizzazione si esce o si resta e chi resta resta, anche se non sa bene dove. Resta a dire: sono disponibile a darti la chiave della mia casa, la chiave della mia macchina, non voglio sapere dove vai ... Hai amici nell'organizzazione che per te è un po' il papà, e pur di restare dentro a qualcosa, di restare uniti a qualcuno, accetti le organizzazioni, anche se sono armate, se sai che usano le armi. Magari tu accetti la violenza della piazza -una violenza collettiva che è come uno scaricamento di stress, di tensioni, di aggressività, qualcosa di psicologico, una specie di training autogeno collettivo-, ma non il terrorismo -questa indi viduazione dell'obbiettivo, questa freddezza, Viscardi occhi di ghiaccio-, però nello stesso tempo non dici no perché hai paura di restare solo e abbandonato. Quindi mantieni il rapporto con l'organizzazione, con la "ditta", come la chiamava Prima Linea. Lo stato nel frattempo, dopo l'omicidio di Moro, inevitabilmente sta facendo i suoi passi e finisci dentro. Io dò la chiave del mio appartamento a una persona, che doveva incontrarsi con altre persone. La cosa mi viene detta con segretezza e quindi uno intuisce che c'è qualcosa sotto, però a quel punto, siccome non hai detto "io mi tolgo dalle palle", in qualche modo ci sei dentro, anche se non vuoi sapere più di tanto. Così la polizia che, aquanto pare, pedinava un latitante, arriva a casa tua. E cosa succede? Sull'onda di Moro, del 7 aprile, anche Firenze, per restare "a la page", fa il suo blitz e io con altre quattro persone finiamo su tutti i giornali con gran titoli: arrestati i cervelli di Prima Linea! Le imputazioni: costituzione di banda armata e tutti i reati attribuiti a Prima Linea: al mio attivo una decina di rapine e un tentativo di evasione, via delle Casine, dove c'era stato il morto, quindi omicidio. Ci sono rimasta 3 anni e 11 mesi, poi al processo le imputazioni gravi sono cadute tutte, la costituzione è diventata partecipazione, mi hanno condannato a quello che avevo già scontato e sono uscita. Qual è il ricordo più importante del carcere? Una grande oppressione dell'ideologia, tu non riuscivi più a esprimere te stessa. Soprattutto nel rapporto con le brigatiste rosse. Ti dico un assurdo: in carcere c'era un doppio controllo e se nell'ora d'aria me ne stavo da sola ad ascoltarmi la musica, venivo individuata come "di versa" dal brigadiere, che si faceva i suoi filmini e cominciava a pensare che potessi essere una possibile pentita. Ma nello stesso tempo venivo individuata come diversa anche dalle altre prigioniere: "come, stiamo discutendo e te ne stai a ascoltare musica?" E così subentrava anche un autocontrollo, perché da una parte sei in un carcere speciale e devi stare attenta che non ti spiantonino di botte e dall'altra c'era la paura delle compagne, del tipo "te lo dico da amica, stai attenta ...". che forse era più paranoia che altro, però la paura ti veniva. Infatti arrivò una detenuta di Azione Rivoluzionaria, che aveva la sua linea di difesa e prese subito le distanze, secondo me con molto buon senso, ma si trovò contro il mondo intero, trattata da infame. Probabilmente anche da me. perché dici "ma come, te ne lavi così le mani?". Perché poi eravamo in una condizione psicologica particolare: le Brigate Rosse fuori sparano e se noi non spariamo ma diciamo "bene che sparano", in qualche modo siamo coinvolti. Ci eravamo già come autoconvinti di essere coinvolti. E anche dentro al nostro collettivo, certi ruoli si ricreavano. Se parlava la Fiora che aveva più esperienza ... Ed erano ruoli reali perché c'è chi ha più esperienza, chi ne sa più di politica, però alla fine, anche questi ruoli diventavano un'ulteriore galera. Perché non ci si può sempre rapportarsi a quel lo che ha fatto un altro: "ah sai, lei è stata di Potere Operaio, ah sai, lei ha scritto dei libri, ah sai, lei ha fatto questo" ... Alla fine si crea una gerarchia e tu cosa fai? Ecco di questo mi pento o per lo meno mi chiedo: perché mi sono fatta così trascinare dalle dinamiche collettive? Era come se dovessimo forzare noi stessi per stare insieme, ma così perdevamo il nostro buon senso, la realtà diventava come svasata. Da una parte il comunicato delle Br ti dava fastidio, ma dall'altra ogni discorso di buon senso, -io sono qua, posso cercare di uscire perché non hanno prove, eccetera-, diventava più improbabile dei deliri brigatisti. Dovevi essere un "prigioniero politico" per forza, da liberare insieme a tutti gli altri, altrimenti diventavi la pecora nera. E così abbiamo sprecato le nostre energie mentali, senza confrontarci concretamente con il problema "giustizia". Per cui ti venivano dei problemi a dire "guardate, io non ho mai ammazzato nessuno", "io non ho mai letto Marx" ... E poi pesava questo discorso dell'eroe: "noi siamo forti, noi resistiamo, noi non siamo infami, noi abbiamo qualcosa in cui credere" e l'assurdo è che avevamo tanto in cui credere che poi non siamo riusciti a salvare neanche il valore dell'amicizia. Per una cosa astratta abbiamo dimenticato le cose quotidiane, ma fondamentali, come i rapporti umani, il fatto che è primavera e uno vorrebbe uscire, che la vita è fatta di tanti momenti e non di idee che potrebbero avvenire nell'anno dell'anno o mai ... E infatti poi, uscendo ho avuto un impatto col quotidiano bruttissimo. Ma i tempi stavano anche cambiando, dicevi che il vostro collettivo si chiamava "Arcobaleno" ... In effetti il nostro collettivo aveva un grande pregio, di lavorare molto sui rapporti personali. Passavamo molto tempo a criticarci, a riderci addosso, al limite dell'autocoscienza. Riuscivamo a fare anche tante cavolate, scherzi agli sbirri ai limiti della goliardia. Fra l'altro, queste sono le cose più belle che ricordo di Messina. Però nello stesso tempo convivevamo con le Brigate Rosse, con queste riunioni pallosissime a cui dovevi partecipare: ,;questa mattina riunione con le Br. Noooo! 1 ! Era come il compito in classe, c'era chi si dava malata, chi si metteva a letto ... Erano cose tristi, grigie. Con quella loro giornata tutta programmata: ginnastica, comunicato, riunione ... Allora poi le Branda vano avanti "per campagne". Così quando ci fu la campagna brigatista "bisogna far le rivolte" il nostro collettivo fu in difficoltà. Perché, con tutte le contraddizioni che avevamo, -in fondo da noi se la Fiora dava ordini potevamo anche riderci su e non so se potevano fare lo stesso con la Mantovani, erano sicuramente più alienate-, però quando loro venivano adirti '·c'è la rivolta, ci state o non ci state?", ti mettevano comunque nei problemi. Perché la loro logica era fare una qualche azione clamorosa che finisse sui giornali, e le nostre dovevano lottare per impedire che venissero fatte cose anche più gravi, perché allora per le brigatiste la vita umana ... erano ancora su quell'onda. Ma quando gli sbirri sono entrati dentro chi hanno menato? Non le brigatiste, ma quelle del collettivo. Perché gli sbirri avevano capito che toccare la Fiora, che le stesse brigatiste, -e loro, dalla posta, lo sapevano- consideravano un'intellettuale borghese, era un conto, toccare la Mantovani era un altro. Per di più sapevano che era ricca, che era imparentata con gente famosa e così si sono accaniti ... le spezzarono una gamba. Insomma sembrava che lo stato avesse l'obbiettivo di accomunarci alle brigatiste. Fra l'altro, dall'80 in poi ci mischiarono nelle celle, che poi si rivelò un bene, perché convivendo con loro avevi occasione di metterle in discussione: che so, quando battevano il loro comunicato, interromperle per parlare, per riportarle su un piano umano. E alla lunga "l 'arcobaleno" l'ha spuntata sul Pece o come si chiamava, perché alla fine si sono dissociate anche loro. Ma era inevitabile perché non credo a questa brigatista "'cattolica" così convinta della sua fede, del suo dio superiore in nome del quale martirizzarsi. Ora non ci crede più neanche la Mantovani. Alla fine non può non vincere la verità: siamo esseri normali, che se possiamo uscire usciamo. Ma in quei momenti le cose erano drammatiche, perché ti trovavi sempre dei muri, prima questo, poi l'altro, poi l'altro ancora. Per esempio quando i compagni dell'autonomia di Milano fecero la lotta per avere "socialità" in carcere, incontri fra maschi e femmine, tutte quante ci siamo dette "ben venga, cavoli ..." perché in carcere la sessualità è uno dei problemi più gravi. Diciamoci la verità, il problema non era se vinceva l'Urss o gli Usa ... Ma le brigatiste cominciarono a dirci che eravamo matte, che volevamo fare il carcere rosa, con le tendine. Ma se devo stare qui dentro perché non starci al meglio? La loro logica invece spingeva al peggio, e infatti le rivolte portarono ali' articolo 80, ai braccetti speciali, a Voghera che è una allucinazione reale. E credo che i loro muri siano cominciati a crollare quando fuori hanno ucciso Peci e hanno fatto il filmino. A tutte noi è venuto naturale di dire "buon dio, che porcheria, che cosa orribile", loro si controllavano ancora nel giudizio, ma penso che incuor loro... Sul Manifesto ho letto di Alunni che in carcere ... Cura i fiori. L'ho letto. Ma infatti ... Rischiavamo di diventare dei mostri, dimenticare i fiori, che per altro non potevamo tenere, dimenticare le cose della vita. In questo ci ha danneggiato forse CO più l'ideologia degli sbirri. Avremmo potuto lottare per star meglio, che so, per un'ora d'aria in più. E infatti poi ci si è arrivati. Io ero già uscita ma poi sono arrivati questi corsi di computer, ed è stato importante perché stai meglio dentro e quando esci hai una carta in più da giocare. Hanno messo su cooperati ve, insomma le cose sono cominciate a cambiare. Sei entrata nel periodo più brutto e sei uscita nel periodo più brutto ... Infatti. Sono entrata in carcere nel periodo clou. 79-83. Nel mezzo e' erano stati penti ti e carceri speciali. Esolodopocheero uscita le cose in carcere sono cominciate a cambiare. Ma sono uscita presto, per prima, e fuori e' era una situazione allucinante. I compagni di un tempo erano più sfigati di me, gente che si parlava male addosso, "ah lui, poi te lo devo dire ..., "ah, saluti quello lì, ma non sai cosa è successo ..." Una disgregazione allucinante, da rimpiangere la galera, e allora ho capito che tipo di galera avevano subito quelli di fuori: avevano vissuto malissimo il discorso dell'infame, noi l'avevamo discusso, superato, fuori no, il dissociato era ancora un infame. E così sono scappata da Firenze con un rifiuto totale della politica, sono tornato al paese e mi sono messa a ripensare a me stessa, a quello che mi era successo, perché non si può sempre dare la colpa a qualcuno, -è colpa del lo stato che è cattivo, è colpa dei potenti-, ma perché io e altri no? Cercare di capire me stessa. In fondo stare in carcere mi era servito per imparare a meditare. In questa lentezza, in questo tempo lungo, interminabile, del carcere in cui non hai impegni, che da un lato è una cosa orribile, dall'altro è una cosa che ha un suo fascino: ci facevamo la fantasia della barca alla deriva ... hai rapporti con te stessa, con questa Giuliana che era finita dentro ... puoi pensare. U ho scoperto una grande libertà di pensiero, che fuori non avevo, perché dovevo fare architettura, dovevo fare politica, avere dei rapporti, ero distratta ... In galera ti potevi annoiare, ma potevi anche riflettere. Ho ricevuto delle lettere da altri detenuti stupende, tanto che ho pensato che alcuni avessero riscoperto qualità di scrittura che fuori non conoscevano. E penso che a molti, in carcere, sia successo di scoprire se stessi. Ma fuori? Quelli di fuori non mi hanno mai scritto. Ma come? Fino a ieri stavamo insieme, abbiamo mangiato e dormito insieme e non mi scrivi neanche una cartolina? Non si ricordano chi sono io, che se mi mandassero una scatola di cioccolatini mi farebbero felice? Fuori c'è stato questo panico devastante, una repressione psicologica ... Ecco, noi in galera abbiamo avuto il privilegio della libertà. Noi non avevamo più niente da perdere, forse ci abbiamo anche giocato un po' con questa visione romantica, come dice Paolo Conte "la sensualità delle vite disperate", eravamo su quell'onda, eravamo coscienti che le nostre vite erano disperate, fuori forse avevano ancora qualcosa da difendere ... E mi sono convinta che se fossi rimasta fuori sarei diventata una gran sfigata. Ma ti è rimasta l'amarezza per le difficoltà a trovare lavoro. Più che altro una difficoltà oggettiva. Esci fuori dal limbo e cosa fai? La laurea non ce l'hai e come dice Guccini, la laurea è importante, concorsi non ne puoi dare perché sei interdetta per 5 anni, ti presentavi da un privato ed eri una terrorista ... Per assurdo, essendo uscita per prima, non sono riuscita a farmi neanche la patente della dissociata che poteva servire. Puoi darti da fare, coi computer e altro, ma poi ognuno ha il suo carattere, io ero uscita con una grande depressione perché avevo visto crollare i rapporti di amicizia e così ti va via l'iniziativa. Poi c'è la remissione del debito processuale che ti sta addosso, perché viene condonato solo a chi ha la buona condotta e a meè rimasto. Non è che in carcere abbia fatto chissà che, ma ti faccio l'esempio cliRebibbia, che è una specie di città e dove ci sono tantissimi tossici. Quando vedevi un tossico in collasso lasciato lì, senza che intervenisse subito il medico, ti veniva da incazzarti. E questo voleva dire denunce, di queste ne ho avute e mi son giocata la remissione del debito ... Vedevi delle cose che ti spingevano quasi a sfogarti in una ribellione ... il valium, l'anestetico dati come fossero caramelle e poi ti rifiutavano di vedere un film, di fare una partita di calcio, di fare un concerto dentro. Questa è la cosa più brutta che ho visto dentro: continuare a drogare la gente. Capisco che è difficile, perché se uno vuol farsi le pere cosa fai? Se uno è depresso, e a me è capitato, hai un bel dire "tirati su" ... Però ... Poi in carcere ho conosciuto gente interessante, una principessa africana arrestata con chili di marjuana, una pittrice di Bruxelles che ancora mi scrive, la donna di Turatello, affascinante, bellissima, che raccontava di questi alberghi favolosi, che in carcere cenava a caviale ... Quando mai avrei potuto conoscere nella mia vita questi vip della malavita? Ma non era solo il fatto della provinciale che restava a bocca aperta ... ho imparato che non c'è il male da una parte e il bene dall'altra ... Insomma il carcere è un'esperienza che sarebbe meglio non fare, ma una volta che ci sei bisogna restare vivi ... Quello che mi ha sempre fatto piacere è di essere finita dentro senza esserci invischiata veramente. Mi ha tenuto su il fatto di non sentirmi, in fondo, colpevole di nulla. Non potevo sentirmi colpevole per aver fatto parte di un collettivo, perché andavo in piazza, perché accettavo la violenza di piazza. Certo, se avessi ammazzato qualcuno, non so come ci sarei stata. Infatti i grandi pentiti sono i grandi assassini, i casi di coscienza sono molto più tormentosi. Sono personaggi da Dostojesky, io sono mediocre, sono finita dentro per sfiga. In carcere, quando ti chiedevano "tu cosa hai fatto?", era anche un problema, ormai me lo inventavo, di aver fatto qualcosa... Oppure, andarsi a leggere il manuale delle armi per darsi un'infarinatura, giusto per restare un po' a la page, visto che non le avevo mai viste in vita mia. Ti venivanoanchedeicomplcssi ... Una volta fuori invece quello che mi ha dato fastidio è che "ero una brigatista". Ma come? Abbiamo lottato per non farci appiattire in galera, esco fuori e sono una brigatista? Di nuovo a dover lottare contro l'appiattimento, contro l'equazione galera-brigatista! E la decisione di fare un figlio? storie Senza la garanzia di un marito? Ma a non aver garanzie ormai ci ero abituata. Prima dell'arresto sei normale, dopo l'arresto diventi un'emarginata. E' un reale passaggio. Chi è più emarginato di un detenuto? Il malato di Aids, ancor più il malato di Aids detenuto, lui è il massimo, e su questo ho visto cose veramente allucinanti. E quando ti arrestano è come se tu entrassi nel mondo di quelli con cui ti eri sempre schierata. Famiglie del sud con un mare di problemi che occupavano lecase a cui dicevi "io lotto con voi", ma mantenendo le tue certezze, gli studi, i genitori che ti davano i soldi ... Quando ti arrestano è come se ti dicessero "volevi lottare per gli oppressi? Adesso ti ci mando proprio in mezzo, così vedi". E infatti quando sei dentro dici: "ah". "Cavoli, io avevo le mie sicurezze ...". Poi in carcere hai sempre le valigie pronte, perché i trasferimenti arrivano di notte, all'alba, e in mezz'ora devi preparare tutto e ti sbattono dove? Lo impari solo sul cellulare quando un caramba paterno ti dice "allora, signorina, si va a Roma". Ricordo queste angosce terribili di notte, questi scarponi degli sbirri, "trasferimento! chi sarà? Chi sarà?" E poi questi strappi affettivi terribili, lasciare gli amici che, nel carcere, erano l'ancora di salvezza ... Ecco, il carcere ti abitua a non averne più di sicurezze. Così è stato anche per il figlio. Il primo flash l'ho avuto al processo di Firenze, mi sono vista con un bambino che mi tirava per i pantaloni in una casa di campagna. E mi son detta: ecco cosa potrei fare. E l'ho fatto, ci ero riuscita. Non ti dico che casa di campagna, una cosa allucinante che ci ho messo poco a fare retromarcia a tutto gas. Ma per il figlio non mi sono fatta più di tanto dei problemi. Ho per la verità le spalle un po' coperte, ho i miei. Ma è anche che impari a pensare che in qualche modo qualcosa succederà, qualcuno ti aiuterà. Prima programmavo, quest'annodò tre esami, l'anno prossimo quattro, fra tre anni mi laureo. Era l'anno in cui per la prima volta avevamo una casa in cui non stavamo in venti e non c'erano tutte le mattine montagne di piatti da lavare, dove non c'era quello che nella camera accanto si faceva la pera e non dovevi aver paura che ti rubassero i soldi, per la prima volta io e la mia amica avevamo persino la macchina!!! che per noi era il top, avevamo il nostro progettino di viaggio, l'Irlanda, che era la ciliegina sulla torta, ed ecco che mi arrestano ... Ricordo che me ne stavo seduta lì, mentre perquisivano, con davanti a me un baratro che si era aperto e in cui sarei sparita. Adesso me ne guardo bene dal dire "sono a posto". Ho la bambina, faccio dei lavori precari, ho la casa ... Per me è già tanto. D'altra parte la bambina l'ho fatta anche perché un figlio è un punto fermo, perché il figlio non ti frega, il ma·schio·sì, una cosa per me, per altro avvalorata dai fatti. Poi a me i bambini piacciono, cresce lui cresco io, ci scambiamo delle cose. Che non abbia un padre forse sarà un problema quando andrà a scuola. Ma i problemi me li pongo quando si presentano. E purtroppo si è visto. Ma è interessante la cosa dei figli, perché tutte le prigioniere hanno fatto figli, anche quelle che ormai avevano una certa età, quindi lo volevano veramente. E' stata una dinamica comune, appena uscite hanno fatto un figlio. Alcune l'hanno anche concepito in carcere, con la compiacenza di qualcuno e l'hanno partorito in carcere. Altre compagne, che devono continuare a dormire in carcere, non si sono spaventate di allevare un figlio e non deve essere semplice la sera. Sai, per me, qual è stata la nostra più grande vittoria politica al processo di Firenze di Prima Linea? Che sonori maste inei nta due detenute. A Milano era capitato ad una che ha dato il la. lo non sono rimasta incinta al processo però lì ho maturato la decisione. Forse è anche un fatto biologico, vedi la fine di qualcosa e subito nasce qualcos'altro. -

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