Una città - anno III - n. 19 - gen.-feb. 1993

COMUNQUEMAMME Potenza della maternità e onnipotenza della scienza. Il gomitolo del DNA clte sfanno srotolando. la paura di lnveccltlare. A partire dall'Intervista a Carlo Flamignl una favola rotonda fra Patrizia Genfllini, Rifa Marclteselll, Cristina rerenzl. Patrizia Gentilini, laica, è oncologa eginecologa. Rita Marcheselli, giàfemminista impegnata, è psicologa. Cristina Terenzi, di Comunione e Liberazione, è avvocato. Fino a che punto ci si può spingere, chiedendo aiuto alla scienza e alle tecniche, in nome della maternità? Rita. Quando si parla di maternità, desiderata o meno che sia, si parla di una delle esperienze più importanti perla donna. Una di quelle esperienze che la donna non può ignorare. Dal punto di vista della psicoterapia si tratta dell'esperienza del rapporto con la madre e siccome ciascuno di noi è nato da madre, per la donna diventare madre vuol dire anche accettare la propria madre. Noi siamo vissute in un'epoca -gli anni '70- in cui sembrava che la maternità fosse meno importante, si era per lo meno cercato di accantonarla, ma era un bluff dal punto di vista dell'inconscio. il desiderio di maternità è di tuffe le età di una donna Infatti questo problema della madre si è ripresentato immediatamente già nei movimenti femministi e con I' autocoscienza è emerso il problema del rapporto con la madre. Era come se le donne non riuscendo a entrare completamente in questa dimensione "sociale", se la ritrovassero poi amplificata a livello dell'inconscio. Il fatto che oggi donne di 50-60 anni vogliano avere dei figli, secondo me è anche legato a quella negazione della maternità, non solo al fatto che oggi la scienza lo permetta. Molte donne, arrivate alla menopausa senza figli, si trovano ora con la possibilità di riaprire tutta l'avventura. E qui secondo me ci sarebbe da aprire il discorso sul desiderio di onnipotenza insito inognuno di noi, e per la donna madre questo è il problema più grosso, il vissuto attraverso il quale attua le più grandi violenze sui figli. E poter fare un figlio a qualsiasi età dà quasi un senso di onnipotenza, è come se le donne scoprissero che cosa vuol dire diventare madri dal punta di vista della potenza. Ecco, nel1' intervista a Flamigni ho avvertito molto questo senso di potenza e mi ha colpita. Una donna si può permettere di non invecchiare ancora, perché forse avrà un figlio ... Dal punto di vista dell'inconscio, però, e qui faccio solo supposizioni perché non mi è mai capitato di trattare casi del genere, non credo che le cose siano così semplici, perché quando tocchiamo elementi che riguardano la vita e la morte, l'inconscio fa i suoi capricci. Cristina. Innanzitutto direi anch'io che la maternità è propria dell'identità della donna, della sua essenza, e perciò che il desiderio di maternità sia veramente di ogni età, della bambina che ha atteggiamenti materni e della donna che non è più feconda. Il desiderio della maternità penso che accompagni la donna sempre e comunque così come la sofferenza della non maternità. Il punto è proprio quello dell'accettazione della realtà. E può essere vero che il fatto storico della negazione della maternità si ritorca proprio contro questa generazione creando questo mito di essere mamme a 60 anni, perché non lo si è voluto nel momento forse più opportuno. Però i limiti sono dati dalla realtà non dalla scienza. Invece c'è chi parla della ricerca scientifica come motore di questa società. lo pensavo che fosse altro ... Mi colpiscono questi tentativi di diventare "realtà" da parte della scienza, di certi ...Per animare {e vostrefeste ... .. .Per i compfeanni aei vostri fig{i... ...Per ogni occasione"magica "... DON EPIX il primo prestigiatore a domicilio Tel. 0543/ 35357 - 64587 bl10 eca Gino scienziati. Patrizia. Sono molto in crisi di fronte a questo problema, ho sentimenti contrastanti. Sicuramente l'intervento di Rita ha inquadrato bene il problema, e condivido fino in fondo l'affermazione chela maternità sia, per noi donne, un evento tanto importante, da suscitare invidia negli uomini. E forse nell'intervista a Flamigni ho visto l'invidia: non tanto la donna che si assoggetta a queste cose, quanto il maschio che vorrebbe creare la vita attraverso di noi in condizioni che la natura, nei suoi ritmi, non permette. qua i miracoli e altrove si muore di tubercolosi Io ho avuto la fortuna di fare l'esperienza della maternità e ne sono contenta. A volte penso addirittura che il desiderio di maternità sia governato da un ormone sconosciuto, perché per me è ciclico; ...un ormone che arri va a ondate ... e non ho una spiegazione fisiologica per questo. E se devo essere sincera, poter avere un figlio anche dopo i 40 anni a me piacerebbe, non mi vergogno di ammetterlo, vorrei cimen tarmi ancora con questa cosa, mi sentirei ritornare le energie per affrontarla, ma vorrei che fosse in maniera naturale. Mi è piaciuto molto quello che diceva Rita sul fatto che chi prima ha negato la maternità ora forse la desidera. Allora adesso non esageriamo nel senso opposto! Invecchiando si impara che in questi corsi e ricorsi in fondo la strada giusta è nel mezzo. Forse allora si è esagerato vedendo nella maternità qualcosa di coercitivo che la società ti imponeva, ma in quel momento è stato anche giusto prendere coscienza del fatto che per secoli le donne erano state costrette a fare i figli. Bisogna trovare una giusta misura. La cosa che mi mette in crisi profonda è che da una parte facciamo una specie di miracolo, mentre dall'altra c'è una situazione nel sud del mondo che è drammatica, in cui la vita non vale niente. Questo non riguarda solo il problema della CO maternità, ma la ricerca medica in generale che nel nord del mondo si fa sempre più sofisticata e complessa, mentre dal1'altra parte non cura malattie curabilissime e banalissime che ancora fanno morire. Io non riesco a farmene una ragione e a rassegnarmi. Da una parte si soddisfa il desiderio della donna sessantenne e su questo si investono non so quanti soldi, dall'altra parte non siamo capaci di dare il minimo per la vita in queste situazioni disperate e non interessa più a nessuno curare malattie come la tubercolosi o la lebbra... In questo mi sento anche personalmente responsabile perché mi chiedo a cosa serva una scienza a questi livelli, quando non siamo capaci di fare ciò che sarebbe necessario e semplicissimo. Cristi11a. Al di là dei paradossi e dei casi concreti, di fronte al problema di come poter controllare queste cose, ho l'impressione che gli scienziati vogliano aggiudicare esclusivamente a se stessi l' autorevolezza di valutare, di giudicare, di intervenire, di indagare sulle motivazioni. E che propongano come freno solo la loro capacità di autolimitarsi controllandosi a vicenda. il bene comune e il coltello nel particolare La differenza fra il politico e lo scienziato è che il primo ha la preoccupazione del cosiddetto bene comune, mentre il secondo è il ricercatore che affonda la lama del coltello in un particolare, tentando di estrapolare il bene in quel particolare. Questo è quello che mi sconvolge: che la realtà diventa il suo pensiero, il suo essere scienziato. Mentre invece la realtà è anche il tubercolotico. Patrizia. Capisco la tua obiezione, che in parte risponde anche a quello che dicevo io, dal punto di vista umano. Certo è che uno che si mette in una ricerca e comincia a capire, a rispondere a curiosità importanti, in quel momento sta lavorando e pensa solo a quello. Io mi ci immedesimo bene: chi sta facendo una ricerca mal sopporta i limiti. Quindi il fatto che c'è chi ha posto un limite alla sua ricerca mi suscita solo rispetto. Dov'è allora il problema? Nello scienziato o in tutti noi? Rita. Ciò che sta accadendo ci dice ancora una volta che l' essere umano vuol costruire la sua felicita uscendo dalla realta, muovendosi preferibilmente in quegli ambiti che gli possono prospettare un mondo senza morte, una giovinezza infinita, una bellezza perfetta. Quello che muove l'umanità, e che anche la scandalizza, è sempre l'attrazione spasmodica che c'è per la vita e l'orrore spasmodico che c'è per la morte. Quando cerchiamo la maternità o la paternità noi cerchiamo di rinascere a livello psicologico. L'essere umano che diventa genitore nasce ogni volta, quindi non so se quelle puntate ormonali che sentiamo siano veramente solo tali o siano invece anche un bisogno di rinascita. E per l'umanità impegnarsi su cose che intervengono nel gene può significare, a livello quasi di fantascienza, arrivare ad una razza perfetta. Ora, magari imparassimo ad usare bene certe possibilità che ci dà la scienza. Il fatto è che è la motivazione sottostante ad essere cieca: noi non vogliamo vedere la nostra vecchiaia. Questa è una visione infantile. In psicoterapia si dice che una persona è "guarita" quando mette un po' i piedi nelle sue scarpe, cioè nella sua realtà. Se porto il 39 non posso ostinarmi a voler portare il 40 o il 37. Riguardo alla scienza credo vada di pari passo con l'uomo: se l'uomo matura la scienza è meravigliosa, se l'uomo non matura, la scienza fa cose orrende. Qualsiasi scoperta della scienza ha sempre avuto due facce. non vogliamo vedere la nostra veccltiaia Cristi11a. Ma a muoversi non sono le donne ma gli scienziati, le donne che partoriscono a sessant'anni saranno tre-quattro, non faranno né storia né movimento. Il dibattito sulla scienza è difficile proprio per la sfaccettatura di bene e male che porta con sé e bisognerebbe tentare, senza demonizzarla, di cogliere il rischio che sta dietro questo particolare tipo di ricerca. Da un lato sicuramente risponde ad un 'esigenza dell'umanità di stare bene, e non potrei avere nulla in contrario. Ma nello stesso tempo è l'uomo, lo scienziato, che entra là nel cuore della vita, nell'essenza stessa della vita e che si deve lasciare alle spalle problemi, questioni concrete e grida di aiuto, perché deve partire per l'avventura. Ed essere troppo presi dall'orgasmo della sperimentazione impedisce poi di rendersi conto di quello che succede. Un anno fa avremmo riso se qualcuno ci parlava di razza pura, di antisemitismo, mentre adesso dobbiamo di nuovo farci i conti. la paura di fronte alla stanza dei segreti Patrizia. E' innegabile questa ambivalenza della scienza. Se la ricerca mi permette di curare malattie che prima erano letali, se mi dà questa possibilità, io non posso scartarla. Ma di fronte a questo tipo di ricerca, quando si va a toccare tutto quello che riguarda l'aspetto genetico, il genoma umano, la sensazione è di paura. Se la natura ha tenuto queste eliche di DNA così avvoltolate e così strette per milioni di anni, cominciare a srotolare questo gomitolo mi dà la senzazione di essere di fronte alla stanza dei segreti e ne ho anch'io paura. Cristina. E lo scienziato che si è fermato di cosa ha avuto paura? Deve aver visto gli occhi del diavolo. Ma se il limite è l'indice di scandalo, mi sembra ancor più preoccupante. Nei campi nazisti forse le infermiere che iniettavano sostanze in cavie umane, avevano un indice molto alto. Su questo è importante riflettere, perché non è la ragione umana la misura dell'universo. Laragione umana di per sé non ha una capacità di misura. E infatti dobbiamo continuamente rifare i conti, al di la delle previsioni e dell'immaginabile, con le disgrazie del mondo, con i bambini somali, con le guerre e le sofferenze. Faccio parte di questa realtà, ma non ho assolutamente la capacità di evitare tutto questo. E' una consapevolezza, una modestia che bisogna avere, che non vuol dire non darsi da fare per curare la tubercolosi o il bambino down. Porto l'esempio di una mia amica con una diagnosi di bambino idrocefalo. Di fronte a questa diagnosi la proposta immediata è stata l'aborto terapeutico, con il consiglio, per la volta successiva, di fare le analisi subito. Lei è assolutamente contraria ali' aborto, ha cercato, ha fatto di tutto e, alla fine, ha trovato un medico che le ha proposto il drenaggio cerebrale. Oggi quel figlio che qualcuno voleva buttare via, ha cinque anni ed è stupendo. Allora la medicina è eccezionale, ha risolto il problema dei bambini idrocefali e di questo non posso che essere superentusiasta, ma nel caso di altre ricerche non so fino a che punto rispondano al bisogno della terapia o a quello personale dello scienziato che si arroga il diritto di mettere le mani nel cuore del mistero. Patrizia. In tutto questo discorso ci sono due grossi problemi: uno è quello centrale della ricerca che si attiva sul cuore della vita e che investe dei problemi enormi, che riguardano il nostro futuro e quello della nostra stessa specie, le sue caratteristiche stesse e rispetto a questo l'altro evento, quello di questa maternità in qualche modo elargita, mi sembra po' più marginale. Teniamo presente comunque che la mappatura del genoma va avanti.C'è il premio Nobel a Dulbecco proprio per questo. Sta andando avanti e tutti i giorni srotoliamo questo gomitolo e ne leggiamo un pezzettino. Questo desiderio di onnipotenza ha a che fare con un'incapacità di misurarci con la morte? Rita. Certamente la morte fa paura e noi non l'accetteremo mai. Ogni essere umano, come fenomeno vivente, ha orrore di tutto ciò che non è vivente. Noi non sappiamo cos'è la morte fisica, nessuno ce l'ha mai raccontata, però la rappresentiamo dentro di noi con il nostro dolore: per noi la morte è quella sofferenza interiore che proviamo. Questo è insopportabile e dobbiamo trovare un sistema per uscirne. E per uscirne noi mentiamo a noi stessi, perché diversamente dovremmo dire che l'unica cosa che sappiamo della nostra vita è che moriremo. Senz'altro si comincia a vivere più pienamente nel momento in cui si abbassa la testa, non dico di fronte alla morte, che è impossibile, ma di fronte al fatto che in ogni modo dal dolore, dalle malattie, dalla perdita dei nostri cari, non sfuggiamo. entrare nel proprio dolore, sentire male, acceHarlo Quando uno viene in psicoterapia pensa che da quel momento in poi come per magia tutto andrà bene; invece è tutto il contrario. Mano a mano che si fa la terapia bisogna entrare nel proprio dolore, sentire male, piano piano accettarlo e venire fuori come in un parto. Ci vogliono due o tre anni perché uno accetti di non avere risolto, ma anzi che comincia a vedere i problemi. L'onnipotenza è l'altra faccia: non accettare che noi moriremo. Spezzerei comunque una lancia sulla bellezza dei nostri tempi in cui una donna di 60 anni si può permettere di desiderare una maternità, mentre pochi anni fa una donna di 48 anni che credeva di avere un fibroma, quando è saltato fuori che invece era incinta disse "che vergogna"! Cristina. Vorrei essere realistica, e non dare giudizi etici, ma accettare la realtà comporta l'accettazione di essere creati e non creatori. E mettere il dito nella piaga del mistero della vita è fare questa sostituzione. L'onnipotente è comunque Dio e non si può capovolgere la realtà, siamo senz'altro compartecipi, ma non creatori. Questo è un atto di fede, ma, secondo me, è quanto di più realistico esista. E se accetti di essere creatura, riesci anche a fare esperienza della morte, non la morte senza dolore o senza paura, ma anche senza disperazione. Rita. Sono d'accordo e anche volendo fare un discorso strettamente laico, nella pratica psicoterapeutica uno sta bene quando accetta di non essere dio. "lo sono dio" è la classica frase del malato mentale. Patrizia. E' meglio che non concluda io... Non ho questa capacità di rimettere tutto nelle mani di qualcun altro, da cui accettare tutto quello che viene ... Non dico che la vostra sia una posizione passiva, però in qualche modo è un rimettersi nelle mani di qualcuno. Ed è certo che questa "soluzione" ti permette comunque, se vogliamo, di non disperare... lo non voglio dare un'idea troppo negativa del mio rapporto col mondo, ma probabilmente è su questo filo che separa le cose che noi dobbiamo camminare con un piede di qua e uno di là. A volte correndo il rischio di cadere da una parte o dall'altra. O di essere noi stessi travolti da cose più grandi di noi, di essere lì a giocare col gomitolo ed a un certo punto il gomitolo ci avvolge e ci strozza. - UNA CITTA' 1 5

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