storie----------------------------- PIU' I FIGLI SONO DISAST I••• intervista a Giovanna Ravaioli, impegnata nel recupero dei tossicodipendenti e nell'assistenza ai malati di Aids. Partiamo da quello che fai, o stavi facendo. Io mi occupavo di tossicodipendenti per conto dell'USL dal 1984. Prima avevo avuto l'incarico, sempre dall'USL, in una famiglia con due bambini. Genitori tossicodipendenti con due figli, e io li seguivo nell"82-'83, come educatrice domiciliare. Lì ho conosciuto quel mondo, il pianeta droga, ho imparato ad amarli, ho fatto le mie esperienze, facendo anche degli errori. Come accompagnarli a prendere la roba quando stavano male, ed era un errore essere loro complice, me ne sono resa conto poi. Però ho imparato ad amarli come persone, ed è.stato un impatto traumatico, per una come me che veniva da 1.1'1 altro mondo e non aveva nessuna esperienza di queste cose; vedere che si facevano, vedere la gente che arrivava con la roba, aspettarsi la polizia ... Un conto è fare una esperienza a tavolino dopo aver letto qualche libro, un conto è venire a contatto con questa realtà. Bisogna fare appello a tutte le proprie energie, alle risorse che si hanno dentro. E' stato allora che ti è scattata la voglia di occuparti dei tossici? Beh, è stato automatico, e per i risultati ottenuti fui inserita nell'organico del CMAS, allora il servizio per i tossicodipendenti si chiamava così. Poichè le assunzioni all'USL in quel momento erano bloccate mi iscrissi ad una cooperativa, ma figuravo a tutti gli effetti nel personale dell'USL. Così mi portai dietro i tossici conosciuti fino a quel momento. Oltretutto il CMAS aveva appena smesso di distribuire il metadone e si accingeva a dare altre risposte ai tossicodipendenti. E il rapporto che io avevo già instaurato con loro è servito ad attutire un po' il trauma di questo passaggio e in questo modo sono anche riuscita a far sì che si rivolgessero al servizio. Di lì poi sono cominciati gli invii in comunità e i primi recuperi di gente che non si sarebbe mai pensato, dopo 8-9 anni che si facevano. Gente che si rivolgeva al servizio proprio perché si fidava di me, mi conoscevano perché avevo già condiviso tante cose con loro ... Fu in quegli anni che si formò la prima associazione dei genitori, seguita da quella di Meldola e Forlimpopoli, e fu una cosa grossa, perché si cominciò a scuotere l'opinione pubblica, i genitori, sul problema droga. Erano gli anni '84-'85. Eravamo quattro intutto, il dott. Missiroli e tre operatori sanitari, fra cui io. Quando c'erano le riunioni, al giovedì sera, venivano 60- 70 genitori, e si conoscevano tutti fra di loro. Allora poi, i drogati non erano moltissimi, era un gruppo che si ritrovava nella piazzetta del Vescovo, un gruppo compatto di giovani che stavano sempre insieme, facevano delle cose insieme e si ponevano in qualche modo anche "contro" determinati schemi sociali, rappresentavano quasi una corrente. In quegli anni cominciarono, oltre agli invii in comunità, anche i miei primi interventi in carcere, e i problemi con i direttori, da quello di allora, che era molto rigido, fino a quello attuale, con cui si possono fare cose importanti. Insomma, allora era tutto un crescendo; noi eravamo in pochi, ma facevamo tanto. Avevamo la piazza di Forlì e Forlimpopoli. Man mano il gruppo degli operatori è aumentato. E anche il numero dei ragazzi da seguire? No. Cioè, sono aumentati i ragazzi che si drogano, ma non vengono al servizio. Perché progressivamente il servizio è cambiato. Prima non era un servizio a tavolino, infatti io e altri scalmanati andavamo in piazza dai ragazzi per cercare di instaurare con loro un dialogo, e eravamo bene accolti, loro ci telefonavano acasa, i genitori sapevano di poter contare su di noi per qualsiasi cosa, era proprio una rete "cuore a cuore". Tutti insieme, e i risultati ci sono stati. Adesso quando vedo dei ragazzi che seguivo allora e che si sono inseriti nella società, ricoprendo degli incarichi dirigenti in aziende o in altri servizi, penso che sia una rivincita dei miei metodi ... Quindi c'è uno scontro di metodologia ... Pian piano, quando il dott. Missiroli è andato via, il servizio è andato sempre più burocratizzandosi, si è cercato di dare un'impostazione "professionale" che si è sostituita al contatto continuo, al legame affettivo con il ragazzo e con la sua famiglia. L'idea di fragilità e di timidezza che ti ispira soprawive pochi secondi alle certezze su cui son basate la sua vita e le sue scelte. Giovanna è una donna di fede e non lo nasconde. Anzi. E' di lì che trae la forza per non accontentarsi di fare la mamma, la moglie e magari l'impiegata. Così, dai figli di coppie disastrate, passa ad occuparsi dei tossicodipendenti, e poi dei "delinquenti" e ora dei malati di AIDS. Non hapaura di andare sempre più giù. La paura, semmai, è che orari, lavoro d'equipe, regole burocratiche le impediscano di testimoniare fino in fondo la sua scelta di stare vicino alle realtà più emarginate e difficili. Non ho una fede religiosa e sono convinto che le scelte di Giovanna non siano un sacrificio, tuttavia sul piano umano posso solo guardarla con rispetto. E grande. Sul piano metodologico dovrei innanzitutto capirci di più per azzardare giudizi. Certo chi legge l'intervista non può non rimanere interdetto, se non addirittura shoccato, di fronte al pervadente maternalismo del "metodo Giovanna". E' più che legittimo qualche dubbio sulla possibilità che quest'impostazione possa e debba soppiantare un intervento di strutture pubbliche. D'altra parte è più che legittimo qualche dubbio sulla capacità delle strutture pubbliche di intervenire. Al di là del valore della testimonianza di Giovanna, questo "dilemma" fra "volontariato" e "ente pubblico" rimane per me irrisolto e lo consegno volentieri a quanti su queste pagine vorranPoi, col tempo, gli operatori vecchi sono andati via, sono rimasta sola a tenere testa a questi nuovi metodi. Non guardavo agli orari, magari entravo mezz'ora dopo, ma ero sempre in servizio, mi chiamavano anche a casa, mi fermavano per strada. Insomma, lo scontro con la burocrazia dell'ente pubblico era anche su questo. Dire al ragazzo: ·•tu vieni da noi, stabiliamo in che orario devi venire, magari non subito, fra una settimana". Per me invece, bisogna affrontare il problema nel modo opposto, soprattutto oggi che il fenomeno della tossicodipendenza è così cambiato. Non c'è un gruppo ben visibile e circoscritto, adesso i giovani soli sono di più, sparsi nelle discoteche, che si sballano perché non riescono neanche più a divertirsi. Insomma, gente che non verrà mai al servizio. Per questo penso che il servizio debba muoversi verso la gente, debba essere qualcosa di duttile, che si sappia adeguare alle nuove esigenze della gente e del momento. Ma tu pensi che ci possa essere un servizio sociale di questo tipo o che debba essere una cosa di volontari? Secondo me, a questo punto, l'ente pubblico non si può far carico di questo, ma può essere solo una forma di volontariato. Va benissimo l'idea del rapporto umano, ma non ci può essere anche del paternalismo in questo? Con conseguenze negative per i tossici? Infatti, molte volte si rischia di farsi coinvolgere, è inevitabile. Però questa, molte volte, è anche la chiave di volta vincente. Certo, l'operatore deve vedere di volta in volta il limite di coinvolgimento, per non commettere degli errori che danneggerebbero il ragazzo. Però, per la mia esperienza, credo di essere sempre riuscita ad entrare nel cuore delle persone, anche dei delinquenti, e andando in galera ne ho conosciuto tanti. Anche oggi mi scontravo con un giudice su questo problema. Per me sono tutti delle persone, e quindi hanno un cuore, sanno soffrire, sanno piangere, e anni di "buchi", di emarginazione, di sofferenza che accrescono anche la loro sensibilità. Immediatamente capiscono se si trovano di fronte ad un burocrate, che deve redigere una scheda, o ad uno che si interessa di loro, della loro vita. Ma tu hai sempre avuto l'impressione di avere a che fare con delle persone che volevano un aiuto per uscire da una situazione o che volevano essere aiutati e capiti per continuare? Dire cambiare, è un po' difficile. Ad esempio: uno dei ragazzi, uno che ultimamente è morto, dopo 18 anni che si faceva, che non ha smesso e che non avrebbe mai smesso, mi ha detto che a lui è bastato entrare in contalto con un mondo che non era quello della delinquenza, della malavita, con una persona che lo amava al di là del ruolo che lui ricopriva da tanto tempo nel suo ambiente. Però non era l'unico obiettivo per cui incontravo queste persone, io il seme lo butto, poi forse germoglierà. Ma tu hai la fede e tutti i conti tornano. Ma quello che la fede non ce l'ha? Non può fare questo lavoro? Infatti, io tutto quello che faccio è perché ho la fede. Un esempio: l'AIDS. Adesso è un problema molto attuale. Ho seguito molti ragazzi dal loro ingresso in comunità, dove hanno potuto avere un po' di tranquillità, fino all'ultimo viaggio, fino alla morte. E per me era un punto d'onore, accompagnarli fino al cimitero in maniera decente, in maniera cristiana, non da poveretti come era stata la loro vita. La differenza fra me e i miei colleghi era anche qui, loro dicevano: "non è di mia competenza", e basta. La grossa difficoltà è proprio rapportarsi con la morte, io riesco a vedere "di là". Una mia collega lo ammetteva molto tranquillamente: "la Giovanna ce la fa con 'sti ragazzi perché riesce a vedere "al di là", noi non ce la faremmo mai". All'interno di un servizio in cui non c'è la fede è un'eterna contraddizione portarlo avanti, se poi uno dice che è la prassi comune, mi adeguo ... sto tranquillo, mantengo lamia poltrona ... Però quando un ragazzo sta morendo, come fai a dire: "non è di mia competenza". Vuol dire che uno non se la sente, e questo lo accetto, ma non barrichiamoci dietro questi paraventi ... Questo lo capisco, rimane il problema che questo è un servizio pubblico ... Infatti io ero vista come una cosa strana. Non potevo lavorare con un'eterna pressione addosso. Il mio spirito è libero, deve spaziare, non mi si può dire cosa devo e non devo fare. Con i miei ragazzi c'è un legame talmente forte al di là della struttura che io mi sento autorizzata a fare qualunque cosa, al di là di quello che è scritto nel programma o addirittura nelle leggi dei giudici. Però devi stare attenta a nondare l'impressione della verità in tasca. Qualche volta l'avrò anche data. A me la dai quando dici: "i ragazzi sono miei, non voglio che nessuno mi faccia pressione, ci penso io". Questa mia possessività è come quella di una madre con i suoi figli. Più i figli sono disastrati, più una madre si attacca. Ma se la tossicodipendenza delle volte è dovuta a problemi familiari, non è un rischio ricreare dei rapporti di tipo familiare? L'altro giorno ho incontrato un ragazzo con dei problemi in casa e non voleva che io andassi a casa sua, che vedessi i suoi genitori o che loro mi vedessero. Questo clima familiare che cerco di instaurare con loro vuole essere un trampolino di lancio per dimostrare il perché della reazione dei loro genitori, cioè tuo padre agisce così perché è mosso da questo, tua madre si comporta così perché ... etc. Però non gliele faccio passare tutte lisce, glielo dico anche: "se fai il tossico a tempo pieno, ti fai la tua galera, stai in mezzo alla strada, ma non stai a casa con i tuoi genitori". Perché loro sono anche molto vigliacchi e tentano di succhiare il sangue ai genitori. Su questa cosa li ho sempre martellati, da me hanno accettato tutto perché c'è questo substrato di fiducia, di confidenza reciproca, altrimenti non l'avrebbero accettato. Quindi tu dici che questa è la base per guadagnarsi la fiducia di questi ragazzi, e quindi la speranza che un domani... Sì, l'aggancio con loro si basa sulla fiducia che dò ai miei ragazzi che hanno perso fiducia in se stessi, che si sentono rifiutati dalla famiglia. Se però tu li guardi come delle persone, con un cuore, una mente e delle potenzialità, loro riescono a credere nell'operatore e a tentare questo salto. Da soli non ce la faranno mai. Eadesso tucosa pensi di fare? Adesso sto lavorando come terapeuta-collaboratrice con alcune comunità nel forlivese e fuori e sto iniziando con alcun i esperti del settore un grosso progetto per l'assistenza ai malati terminali di AIDS: vogliamo fare presto perché l'esigenza è immediata. Attualmente ne sto seguendo alcuni, anche se ho lasciato la USL. Ce ne sono molti a Forlì? Terminali cc ne sono pochi, ma in fase evolutiva cc ne sono abbastanza. Com'è il rapporto con queste persone? B i O 1a ~ la~o. lo vorrei far capire una cosa che per mc è importante: a mc non è mai interessato il risultato, anche se dentro di me speravo ~empre nel recupero. Certo, però di solito i ragazzi hanno alle spalle delle famiglie disastrate, per cui io non voglio ricreare il clima della famiglia, cerco di fargli vedere lo specchio della situazione che avevano a casa loro, in modo familiare, umano, vicino a loro. Anche qui l'esperienza non mi è venuta dai libri. E' molto difficile stare vicino alla soffercnza, soprattutto dei ragazzi. All'inizio, di fronte ai primi casi, pensavo fosse giusto non dire niente, né ai ragazzi, né ai genitori. Poi adesso penso che la verità vada della e che ocL corra dare una dignità alla morte di queste persone, stando vicino a loro senza commiserazione. Cosa dicono questi ragazzi? Hanno fiducia in me fino alla fine. L'ultimo che è morto mi diceva (con fatica perché aveva perso praticamente l'uso della parola): "non dire niente ai miei. Mi sto preparando a fare un lungo viaggio, dove vado Giovanna secondo te?". "Andrai a stare bene, te lo assicuro". "Ho sempre avuto fiducia in te e mi fido anche adesso". E le famiglie? Le famiglie, se sono preparate fin dall'inizio della malattia, non dico che arrivano alla fine dolcemente e senza problemi perché il figlio se ne va così giovane ... , però c'è come un accompagnamento, riescono a stare vicino al figlio, lo ritrovano. E' chiaro che è una pena. Hanno tutti chiaro che non c'è speranza, anche se si attaccano alla vita fino all'ultimo. All'inizio quando si scoprono sieropositivi dicono: "quando la malattia si manifesterà mi farò un'overdose". Ma non ho mai visto nessuno farsela. Si attaccano alla vita fino alla fine. Però credo che sia opportuno affrontare la malattia nelle sue varie fasi in modo diverso. Questa è una missione per te? Sì, per questo voglio portare avanti questo progetto. Hai mai avuto paura, anche quando eri a contatto con i tossici? No, mai. Sono sempre venuti anche a casa mia; ho sempre avuto il massimo rispetto da loro. Anche da gente che girava armata. Non mi hanno mai chiesto neanche dei soldi. Addirittura Donati mi ha telefonato da Amsterdam. C'è proprio un vincolo di affetto, di amicizia, sanno che fanno parte della mia vita, che sono importanti per qualcuno. Ho avuto anche una lettera dal carcere, in occasione della mia defenestrazione, da parte di carcerati che seguivo. Ognuno ha scritto qualche riga ... Uno ha scritto: "vorremmo fare un manifesto per te, ma siamo dei delinquenti, chi ci prenderebbe in considerazione?" Ma non ti sembra che questo tuo atteggiamento li aiuti ad uscire dalla dipendenza della droga creandogli un'altra dipendenza? Infatti all'inizio è così. Loro si rivolgono a me perché si fidano e quindi dipendono da me. E io accetto questo. Però poi le comunità svolgono dei programmi al termine dei quali questi problemi vengono superati e me mi conoscono ancora come quella che li ha aiutati. Quindi tu scegli nettamente il volontariato anziché l'ente pubblico? A questo punto sì. Però non c'è un problema di professionalità'? Questa si acquista con la pratica, con l'esperienza, stando ad ascoltare. Sì, ma farsi l'esperienza sulla pelle della gente ... Però anche chi si trincera dietro le proprie competenze non vuole vedere la realtà. Non si può ragionare per compartimenti stagni. Secondo me dire che si deve venire al servizio solo per appuntamento e non quando si ha bisogno, è un trincerarsi dietro le proprie comodità. Secondo me, invece, l'operatore che lavora nel sociale deve essere sempre sulle spine per avere sempre il polso della situazione. Lo vedi un po' come un missionario, anche se è un "dipendente'? Beh, deve essere duttile, capirecome sono cambiati i giovani adesso, che sono diversi da quelli che si drogavano nel 1984-'85, e che cambiano in continuazione. Non possiamo ancorarci dietro schemi che vengono fatti adesso e che devono durare anni. Invece nel volontariato, nelle associazioni come le comunità, si fanno dei programmi che poi diventano immediatamente operativi senza passare per i cavilli burocratici di approvazioni e delibere ... Non serve più una struttura monolitica alla quale non si rivolge più nessuno. Ultimamente al servizio non veniva più nessuno. E gli insuccessi? Ne avrai avuti anche tu... ...Certo, gentechec'èricaduta. Ma non mi arrendo di fronte agli insuccessi. Solo quando li vedo nella bara. Ma neanche quello è un insuccesso. Perché loro sanno che anche la loro morte fa parte della mia vita e io faccio parte della loro vita. Se uno ha la fede non esiste l'insuccesso. ... la droga non sarà mai vinta, ci sono interessi troppo grossi. Ma la inia vita non servirebbe a niente se mi lasciassi vincere da questa sfiducia. Nel mio piccolo cerco di lottare e di portare un messaggio di speranza, di fare qualcosa. Iocerco di essere sempre la stessa; coi ragazzi, a casa, con i miei figli. Loro sanno tutto di me, mi chiedono dei miei figli, se possono venire a casa mia. Cerco di arginare un po' questa cosa, però cercano di essermi vicini, ad esempio se muore qualcuno. C'è stato un periodo che ne moriva uno alla settimana, di quelli che conoscevo da più tempo. Da tanti miei colleghi non ho avuto una parola. Io soffro come i loro genitori quando muoiono questi ragazzi. Infatti è esploso poi tutto anche perché non ammettevo più certe cose. Ad un certo punto ho convocato i giornalisti ed è esplosa la bomba. Quando si trattano i ragazzi morti come pratiche, o i genitori dei ragazzi morti che continuano a venire per continuare il contatto con l'operatore per rivivere il figlio, per qualche mese o anche per un anno o due, e si sentono dire: "ma cosa viene a farez Tanto suo figlio è morto.... Oppure sentirmi dire: "Cosa sono quei cadaveri ambulanti che vengono a cercarti? Tutti malati vero?!" Non sono delle pratiche ... E' stata anche quella la molla che ha fatto scattare la mia ira, perché quando moriva qualcuno: "adesso facciamo le pratiche del tribunale, poi le mettiamo dentro la cartella, poi le mettiamo nell'archivio dei deceduti", senza una parola, niente. Una pratica da archiviare. Erano più gli altri ragazzi, anche quelli del carcere, che mi consolavano e che mi chiedevano di uno che sapevano che stava male. Con loro io potevo anche piangere, potevo esprimere i miei sentimenti, mentre come operatore, secondo la burocrazia, non mi è consentito. Uno per consolarmi mi ha detto: "noi siamo tutti delinquenti, siamo destinati a morire di AIDS o con una schioppettata alla schiena, non meritiamo le tue lacrime''. lo gli risposi: "voi siete i miei figli, non siete dei delinquenti''. E allora questo tipo mi abbracciò. Questo per farti capire quanto ho ricevuto da loro. a cura di Massimo Te.sei
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