Una città - anno I - n. 5 - settembre 1991

Chian (Cina). Un baanbino di nove anni: Abbiamo laHo volare gli aquiloni che la signorina Suan ci ha laHo costruire e lanciare nel cielo perchè oggi c'è il vento. Gli aquiloni sono di tuffi i colori e volano alti anche quelli del ba,nbino senza ,nani che è arrivato ieri. Lui tiene il filo del suo aquilone in bocca e sorride. Noi abbiamo legato sette gomitoli di filo di canapa al suo aquilone perchè vogliamo che vada più • ,n alto di tutti. Andrea Canevaro Può essere utile leggere la lettera di Chian come un buon suggerimento. E' per cercare di capire meglio come può funzionare I' integrazione e che vantaggi pratici può dare. Ma prima di procedere esaminando il suggerimento, la proposta, che nasce dalla lettera di Chian, verrebbe da chiedersi: come mai eia cuno preferisce restare, non diciamo un gomitolo, ma spessoun pezzo di filo per suo conto, piutto to che allacciarsi ad altri pezzi e costruire insieme una lunga cordata? C'è forse una percezione sbagliata delle proprie funzioni, e l'idea che sia importante mantenere liberi i due capi che costituiscono i termini nel nostro pezzetto di spago... E in questo modo rimaniamo pezzetti troppo corti perfarealzareunaquilone. Una persona molto ordinata, forse un po' troppo, aveva unascatola su cui aveva critto: spaghi troppo corti peressereutili. Può essereche quel signore intendesseutilizzare gli spaghi inutili legandoli tra loro. Ma, solitamente, gli avanzi degli spaghi vengono bullati via. Da anni, in diverse realtà locali -e tra queste Forlì - ho l'impressione vi sia una grande difficoltà a collegare i fili, a legare fra loro pezzi che, indiDa 11 LeHere dal domani 11 R. BaHaglia 1 ed. S.E.I. 1 973 vidualmente, sono inutili e non lo si vuole ammettere. Riunioni interistituzionali, buone volontà dei singoli, non sono bastate. E' un'impressione soggeui va, sia pure pas ata auraverso alcune esperienzedirette. Sare i contento di essere smentito. UNA QUESTIONE DI DIGNITA' QUATTRO PER SCRIVERE UN LIBRO Queste mie brevi riflessioni potranno suonare leggermente stonate rispetto al modo tradizionale di trattare le tematiche del l'handicap e forseanchenon conformi allo stile di questa giovane rivista. Ma vorrei esporre il mio modo di vivere e di sentire il deficit. Sesi considera l'handicap come una barriera sociale che impedì ce a determinati individui (siano essidisabili, tossicodipendenti, omosessuali, ecc.) di vivere e di e primere la globalità della propria identità, allora può cambiare completamente i I concetto di diversità. La mia è una posizione radicale e cercherò di chiarirla iniziando col raccontare rapidamente la mia esperienzaed il modo in cui ho affrontato l'handicap. e basta: la diversità coincide con la sua identità. Tutto questo fa comodo: aiutare un deficitario mette in crisi. La conoscenzaapprofondita dell'altro, del suo modo di vedere e di affrontare la vita pone in discussione le proprie abitudini ed i propri pregiudizi. E' più comodo quindi affidarsi a sicuri stereotipi accompagnati, magari, da un atteggiamento pietistico.Nella ~ocietà che io sogno, invece, tutti i vari soggetti (quelli che oggi sono divisi in "normali" e '•diversi") sono sullo stesso piano: ciascun individuo viene considerato in ogni aspetto della sua personalità; vi è pertanto un dialogo aperto in cui la comunicazione percorre tutte le direzioni possibili. E' una questionedi dignità. E' necessario innanzitutto che il soggetto stessosia consapevole di essere portatore di valori importanti da integrare nella società, e che quest'ultima si rendadiMi è capitato di citare diverse volte la vicenda di Joey Deacon. La storia di Joey è raccontata da lui stesso in un altro libro interessante(Lingua legata, Firenze, La Nuova Italia, l978; ed. originale 1974); e almeno altrettanto interessante è il modo con cui il libro è stato scritto. Ma andiamo con ordine. Joey è nato nel 1920, in Inghilte1Ta,ed è uno spastico colpito alle gambe e alle braccia e incapace di parlare. Nel suo libro si legge: "Quando avevo circa quattro anni cominciò la mia vita in ospedale. li primo ospedale dove sono andato erailSt.Childesemi fecero un'operazione dietro alle gambe. L'operazione non riuscì. Sono andato all'ospedale nel I 924. Passòun anno. Cominciarono i giorni di scuola, ma non ci durai molto. Andavo a scuola a Otting Street. Mi mandarono a casa per via dei nervi. Non potevo parlare. Rimasi a scuola tre mesi. A quel tempo ho avuto una sorellina, Gladys. Quando smisi la scuola rimasi a casa e tutte le matline la mamma mi metteva davanti alla porta di casa. Mi chiedeva quantemacchine eranopassate e io rispondevo strizzando gli occhi. Strizzavo gli occhi una volta per ogni macchina che era passata. La mia mamma capiva". Joey mise insieme un modo di esprimersi attraverso segnali non verbali, riuscendo a comunicare bene soprattutto consuamadre,che, evidentemente, dimostrò di avere molte risorse per poter sviluppare questo codice non verbale. Furono più utili le automobili,chepassavano davanti a casa, dei giorni passati in unascuola, dove Joey non veniva capito e neancheosservato. La madre morì nel 1926 e due anni dopo Joey fu collocato in un centro ospedaliero permanente.Dal '28 al '44 nessuno capì che poteva ricevere e trasmettere messaggi, comunicare anche in maniera complessa ed elaborata. Le uniche comunicazioni chegli venivano attribuite erano immediate, relative a ciò che lo circondava e che costituivano i bisogni più elementari. Solo nel '44 un altro spastico ricoverato, capace di parlare, comprese che Joey aveva un codice dicomunicazione elaborato. Tra Joey ed Ernie si stabilì un'intesa basatasulla collaborazione: Ernie metteva la voce per dire quello che Joey comunicava. In seguito arrivò Michael, che ci mise la scrittura. Nascevaun libro -quello a cui mi riferisco in questa introduzione- e bisognava battere a macchina il testo. Ci pensòun quarto amico handicappato, Tom, che non sapeva leggere e scrivere, ma si dimostrò capacedi copiare attentamente e considerò l'utilità del suoapporto per il lavoro del libro. Nacque un libro che aveva un autore ma quattro costruttori: Joey, l'autore, che comunicava a Ernie. Ernie che diceva e dettavaa M ichael; M ichael che passava lo scritto a Tom; il quale a sua volta lo batteva a macchina. Si integravano: una storia e un codice non verbale, una ricezione visiva e una voce, delle orecchie per ascoltare e delle mani per scrivere con la penna, degli occhi per leggere e delle mani per dattiloscrivere. Ciascuno metteva insieme agli altri alcuni strumenti che, senza quelli degli altri, non avrebbero potuto dare il risultato complessivo che ottennero. E nell'integrazione degli strumenti in rapporto aun obiettivo complesso come è un libro, anche l'azione in sè poco sensatao scarsamentemotivante (come il lavoro di meccanicacopiatura amacchina di Tom) prendeva un senso pieno e veniva fornito di una robusta motivazione. Questacomposizione amosaico è di grande interesse;è anzi affascinante, al punto da rischiare di far passarein secondo piano alcuni aspetti specifici che invece sono altrettanto importanti. La mancanzadi risposta apparente da parte di Joey faceva credere che non capissee; il fattochein seguito abbia dimostrato in maniera così evidente le suecapacità di comprensione può fare riflettere e far nascere diverse domande. Se una persona handicappata non ha la possibilità di emettere segnali mimici di ricezione dei messaggiverbali enon verbali, viene ritenuta incapacedi capire? Fino a che punto si tratta di incapacità di corrisponderenella comunicazione da parte di una persona handicappata, o di incapacità dicogliere i segnali originali da partedei suoi interlocutori? La costruzione di codici non verbali può risultare decisiva per la possibilità di vita di persone handicappate?Fino ache punto vengono incoraggiate e valorizzate le risorse delle persone che vivono nell'ambiente delle personehandicappate?E fino a che punto si incoraggianoe valorizzano le risorse parziali dei singoli handicappati, perchèrientrino in un progetto complesso? O ancora: le risorse parziali vengono accolte come egnali di una persona parziale, di un individuo che non è cresciuto come gli altri, e per il quale l'età anagrafica va dimenticata, considerandolo un poco sempre un bambino? Certamente, una persona handicappata rischia di avere bisogni e desideri ridotti agli aspetti di sopravvivenza e di sussistenza, amputando dalla sua vita le dimensioni culturali, che si proiettano al di là di una quotidianità fatta di elementi primari semplici. canza di sviluppo dell'intelligenza. La ricerca di altre strade per la comunicazione è trascuratao poco avvertita. Nello stessotempo, i casi che possiamo conoscere di per one che hanno sviluppato modalità anchedel tutto originali di comunicazione hanno ribaltato, totalmente o parzialmente, i giudizi e le valutazioni circa la loro intelligenza. scopo di ammirare un paesaggio o ascoltare una buona musica. Gli apprendimenti scolastici, così come spessoli concepiamo, incoraggiano a mantenere quest'atteggiamento riduttivo e di rinuncia: se mancano i minimi comuni denominatori didattici, sembra che molto o anche tutto nella scuola sia precluso. Credo che ia un rischio, vissuto sulla pelle da tante personehandicappate,connessoalle caratteristiche che collegano, inmanieraapparentementenon molto pensata,la parola all'intelligenza. Certo lo sviluppo dell'intelligenza in un'identità atipica rispetto ad un ambiente può sembrareeanche risultare fortementecompromesso.Ma non pochi casi segnalano la necessità di non condizionare, in maniera forse involontariamente violenta, tale sviluppo auraver o la negazione di originalità. Nella vicenda di Joey e dei suoi amici -così come in alcune vicende presenti in que to libro- i minimi comuni denominatori didattici sono raggiunti grazie alla collaborazione di altri che fungono nello stessotempo da strumenti e da intermediari. E le risorse di ciascuno non sonocollocate in una prospettiva lineare e rigida, percui non sapendofareuna certa co a si rimane sempre nella "casella" -penso a un gioco dell'oca- precedente. Invece è possibile saltare, raggiungere posizioni più adulte e tali da dare risultati elaborati e complessi. Sembra che l'assenzao Iadi fficoltà di parola sia da connettersi all'idea che questi impedimenti siano senz'altro manRitenendo che una persona adulta abbia bisogni e desideri di un bambino che non crescerà si finisce quasi inevitabilmente, e al di là delle intenzioni, peraccudirne i bisogni quotidiani come una "manutenzione", senza attendersi nè sperimentare mai momenti di comunicazione che abbiano lo UNITA' NELL'INTEGRAZIONE O NELL'INTEGRISMO? Il bisogno di unità è, a volte, tanto urgente in qualcuno, da fare invocare come una virtù la perdita di identità singolare; o da fare passare come insensata o anche dannosa, proprio la ricerca originale di senso, specialmente se passa attraverso il dubbio. Un'unità che si paghi rinunciando alla ricerca, agli interrogativi, ai confronti aperti e a rischio, si presenta come uno strumento difensivo, all'insegna della paura e al bisogno di un'autorità che decida per tutti, impedendo e annullando le differenze. E' l'unità dell'integrismo. Cisonomoltitipidi integrismi:quellifondati su una religione, quelli che si riferiscono ad un'ideologia, e ancora quelli che si affidano ad una scienza. Integrismo vuol dire aver stabilito a priori una verità e un ordine gerarchico di verità e di valori ai quali tutti devono sottomettersi. Enzo Pace ha scritto un libro che, oltre ad essere di grande interesse, ha un titolo emblematicamente chiaro: il regime della verità (il Mulino, Bologna, 1990). Si tratta di uno studio sul fondamentalismo religioso contemporaneo. Il titolo riprende una espressione di Miche/ Foucault: il fondamentalismo pretende di essere un regime della verità. E come lo pretende? Ritenendo che la verità sia una esperienza diretta del sacro, stabilendo cosa sia il sacro, e facendo derivare, da questi indiscutibili presupposti, che l'esperienza diretta è fondante. Inoltre il fondamentalismo si fonda sulla convinzione che l'esperienza di verità o neo meglio: l'esperienza diretta dal sacro che è fondante nella verità, sia al centro di congiure, di incroci e di pericoli collettivi. La paura è direttamente proporzionale al bisogno di riporre ogni salvezza in una preziosa formulazione di poche regole, nei luoghi in cui questa formulazione è praticata, in un gruppo iniziato alle stesse pratiche. Esperienza diretta fondante la verità e sindrome da accerchiamento: ecco i tratti più caratteristici del fondamentalismo. E fondamentalismo ed integrismo sembrano due nomi per la stessa realtà. L'integrazione ha una dinamica molto diversa. Non presume una verità già posseduta ed espressa nella propria diretta esperienza. Ciascuno può portare un po' di verità, che assume maggior valore e si completa unicamente ne/l'incontro e nella scoperta del poco di verità che ciascun altro a sua volta porta. E l'unità è un processo possibile solo grazie al riconoscimento, o all'impegno in questa direzione, delle ragioni dell'altro, delle sue diversità come valore. Integrare significa accettare di confrontarsi senza la presunzione di sapere in anticipo che le nostre o le mie ragioni sono in perfetta regola e che all'altro uso non rimane che aderire, ammettendo implicitamente o meglio esplicitamente di aver sbagliato; integrare significa comporre pazientemente un mosaico reso possibile dalla possibilità di trovare tante tessere diverse. La mia riabilitazione ha sempre occupato una parte circoscritta del mio tempo. Il totale "recupero" non ha mai costituito per me un obieuivo, ed anzi per molti anni mi sono rifiutata di fare ginnastica rieducativa. Molta importanza ha avuto invece la scuola, che ho empre frequentato regolarmente: fin dabambina lacultura ha e ercitato su di me un grande fascino, ed è stato proprio in quest'ambito che ho concentrato il mio impegno. Ancor prima di venire a conocenza del mio deficit. mi ero costruita una vita identica a quella di qualsiasi altra per ona. A questa costruzione (che non ha richiesto nessun forzo) hacontribuito in modo prezioso la mia famiglia, che mi ha sempre portato, per esempio, a visitare città e monumenti e mi ha fatto gu tare le gioie dell'amicizia. Gli amici hanno sempreavuto per me un ruolo molto importante: la loro naturalezza nei miei confronti ed il piacere che provavo in loro compagnia mi hanno fatto amare la mia vita co ì com' era.E allora? Cosa avrei dovuto fare quando ho preso coscienzadel mio deficit? Abbandonare tutto per piombare in una crisi esistenziale o per immergermi in un disperato tentativo di "recupero", per rendere "normali" il mio linguaggio e la mia deambulazione imperfetti? Per che cosa? Per ritrovarmi un giorno isolatae incolta? Ho preferito accogliere la realtà ed "accantonarla" momentaneamente, continuando per la mia strada. Poi con gli anni il deficit si è integrato nella mia vita. Per integrazione intendo l'uso di strumenti diversi rispetto a quelli di chi è "normale" (per esempio il computer può essereun mezzo di comunicazione per chi. come me, ha difficoltà di linguaggio). Ma lo spirito. la volontà e, perchèno, i risultati, non mutano.Generalmente si ha una relazione asimmetrica con la diversità: un rapporto basato sull'aiuto e sulla commiserazione. Non amo la parola "solidarietà" perchè prevede una comunicazione unidirezionale. Il diverso è diver o. ponibile ad accettarli. Bisogna quindi, per riprendere i concetti iniziali. eliminare gli o tacoli che impedì cono di vivere e di esprimere in modo completo la propria identità.A volte si accusala tecnologia di isolare il disabile: il lavoro svolto da un robot non permette all'handicappato di avere rapporti umani. Questa opinione non mi trova d'accordo: se l'aiuto materialedev·essere l'unica occasione d'incontro per chi ha un deficit, allora si ricade in una relazione asimmetrica con la diversità. lo vedo. piuttosto, l'ausilio tecnologico come uno dei po sibili mezzi per abbattere l'handicap e per fornire al disabile l'opportunità di organizzare la propria vita e di esprimere le sueidee.Vorrei conci uderecon unadistinzione. Vi sono, amio avviso. due forme di diversità: una sostanziale ed una formale. La prima riguarda nuovi punti di vista; la seconda la possibilità di espressione e di autonomia. Un nomade in Italia è portatore di tradizioni e di modi di pensare diversi che vanno conosciuti ed integrati per la reciproca crescita. Invece il quadro di riferimento culturale di un handicappato è sostanzialmente quello della cultura dominante: egli hasolo bisogno di ausili i adeguati per comunicare e superare gli ostacoli che incontra nella vita quotidiana. A volte nella stessa persona possono coesistere entrambe le forme di diversità. Questa riflessione è derivata dal mio non sentirmi molto diversa nel modo di esseree di pensare: la mia vita è impostata come quella delle per one "normali": ho solo bisogno di altri mezzi per comunicare e per essere più possibile autonoma. Questo è empre stato l'obiettivo della mia famiglia ed il mio: questo vorrei che fosse l'obiettivo della società del domani. Stefania Navacchia

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