Una città - anno I - n. 4 - giugno 1991

intervista a Loris G., ex-tossicodipendente PUR DI NON SENTIRMI ISOLATO E SCONFITTO Cominciamo dalla fine. Di che cosa ti stai occupando adesso, e come ci sei arrivato? Lavoro in un gruppo-appartamento con malati di mente e ci sono arrivato per mezzo di una vecchia compagna di scuola delle magistrali. Prima lavoravo in un paesino della Val Camonica e ritornavo saltuariamente a Forlì. In una di queste occasioni lei mi ha detto che, se mi interessava tornare stabilmente, c'erano associazioni che cercavano personale. Così sono capitato a lavorare lì. Ci lavoro volentieri, ma anche con molta fatica perchè essere a contatto con sofferenze vive dalla mattina alla sera mi mette di fronte al fatto che ancora non sono, come dire... adeguato ad affrontare delle sofferenze che poi in fondo vanno a colpire le mie. Era un problema questo ritorno? I primi mesi che giravo per Forlì un po' di paura c'era. Incontravo persone con cui avevo avuto le mie storie e ricordo che mi dava fastidio, come un senso epidermico di paura ad incontrarli. Poi ho visto che la cosa si è sciolta, però inizialmente è stato abbastanza problematico. Forse per il fatto di ritrovarsi di fronte alla propria debolezza, alla propria insicurezza rispetto a tante cose. Visto che è stata una soluzione per tanto tempo nella vita, ritrovarsela di fronte ci si sente ancora abbastanza fragili. Come consideri il periodo della 'droga', un periodo da espellere dalla mente oppure una cosa che comunque appartiene alla tua vita? La vivo ancora in maniera ambivalente. A livello razionale capisco che quel periodo posso considerarlo tutto tempo buttato via, un tempo in cui potevo fare delle cose diverse, potevo affrontare le mie problematiche e non l'ho fatto. una cosa che s'è mischiata con la vita A livello emotivo è diverso, perchè l'ho vissuto troppo a lungo, troppo in mezzo per non sentir!o come una cosa che s'è mischiata con la mia vita in un moao· così profondo che non potrò·mai dire: "è come se non fosse successo". Oppure fare finta di niente. A volte vedo per strada persone che si 'fanno' ed io li vedo. Uno che c'è stato in mezzo lo vede dall'altro lato della strada e può dire:"quello là è uno di quelli che si 'fanno'". L'atteggiamento dei tuoi ex compagni qual è? In genere ho incontrato profondo rispetto, anche fra quelli che si 'fanno' ancora. Abbiamo fatto a volte qualche giro insieme, di 15 - 20 minuti, per Forlì, abbiamo parlato. Qualcun altro mi chiede le I000 lireole 10.000!ire,oisoldiper la siringa. Qualcun altro, raro, ha espresso la sua incredulità dicendo: "sarebbe troppo bello, non è possibile, sicuramente qualche volta ti 'fai' ancora". Nella maggior parte dei casi, specialmente da parte dei più vecchi, c'è profondo rispetto. La frase di una vecchia canzone diceva:"ogni J unke è un sole che muore". Il senso era quasi di orgoglio, cioè di apUn genitore racconta l'incubo dal quale sta uscendo. Sa già che ne uscirà profondamente cambiato. Quell'uomo che considerava tutti i drogati dei delinquenti ed era, in fondo, tollerante verso il figlio che usciva di casa "per andarli a menare", non esiste più. Quasi fosse un atroce scherzo del destino, la droga gli ha catturato il figlio e lo ha esposto ai duri giudizi di una società che non sa, ma che giudica impietosamente. Come faceva lui. E' un racconto in cui l'autore risparmia poco anche a se stesso ed è rivolto a coloro che possono e vogliono capire senza "dover provare sulla propria pelle". Un altro uomo, genitore anche lui, ci parla in una lunga intervista, dei lunghi anni vissuti da tossicodipendente. Di quale prezzo abbia pagato nel tentativo di uscire dall'isolamento, di "non sentirsi uno sconfittto". Una battaglia combattuta due volte, prima in compagnia della droga, poi per uscirne. Sono due uomini molto diversi e hanno scelto entrambi l'anonimato. Siamo stati indecisi sull'opportunità di fare due interviste che sarebbero rimaste anonime. La scelta di testimoniare con nome e cognome è un segnale che incoraggia chi si trova spesso nelle stesse condizioni difficilissime, a uscire da un isolamento sociale che spesso aggrava il problema, ma non spetta a noi ovviamente. Ed è una scelta grave perchè viviamo in una società spietata contro i "diversi". Una società in cui domina l'ostentazione più sfacciata di ogni moda e di ogni "firma" altrui, ma che esige, quasi, di non vedere, di non sapere, "il problema", quasi che fosse un fantasma. Che non perdona "il problema". L'anonimato è, comunque, una decisione individuale che non possiamo non rispettare. E d'altra parte abbiamo pensato che non sminuisse il valore delle testimonianze. Da qui la decisione di pubblicare. partenere ad una generazione che stava facendo qualcosa di importante. C'è stato un tempo in cui la droga era vissuta anche come maniera di emergere, comunque come qualcosa che andava fatta per stare dentro al gruppo? lo l'ho vissuta così: a livello di gruppo c'era questa rivendicazione ad ogni costo della diversità. Ricordo ancora abbastanza bene le prime volte che mi 'facevo' ed erano proprio queste le situazioni. Questa specie di rivendicazione a livello del gruppo era come una coperta, come una giustificazione, di "bluff' di massa. Ed era anche poi la spia di rapporti che, visti oggi, non erano propriamente rapporti d'amicizia. Una volta uno mi disse: "se sapevo così avrei cominciato prima". Però, se allora aveva un senso, adesso è un pò tragico pensarci. Perchè aveva un senso? Perchè trovare qualcosa che ti placa, che ti permette di essere fluido, di sentirti a tuo agio anche nelle situazioni in cui normalmente ti senti a disagio; con gli altri, nel rappo1to con le donne, nei rapporti con quelli che vivevi come i leader, quelli che sapevano parlare, trovare qualcosa che sostituisse la paura, che ti permetteva di esprime1ti, di parlare con quelle persone, era una liberazione. Quando ho iniziato io, a Forlì non c'era ancora tanta gente che si 'faceva'. A livello mentale desideravo farlo già da molto tempo. Ci sono altri magari che sballano leggermente per tutta la vita, che so, bevendo o fumandò spinelli e non arrivano mai a quei livelli. Io penso che dipenda dal grado di sofferenza che ci si sente dentro e dal grado di forza o di debolezza di fronte a questa sofferenza. lo evidentemente avevo molta sofferenza e poca forza. Quindi, il percorso è comunque Iosballo. C'è poi chi Ioporta un pò più avanti, che rimane al di qua, comunque è sempre quella linea di fondo: andare fuori ... andare fuori, proprio così. A me in questi giorni è capitato di collegare il 'farsi' all'andare fuori. In fin dei conti mi sembra di vedere che un matto è una persona che è andata fuori perchè aveva delle sofferenze troppo acute nella realtà. Infatti il delirio non è altro che rifugiarsi in un mondo fantastico e sostituirlo a quello reale e a me è venuta di fare la stessa cosa, cioè andare fuori perchè anch'io dentro sentivo una sofferenza di quel tipo. pur di far parte di un gruppo Tu hai cominciato in un periodo in cui la tensione politica era ancora viva e tu facevi parte di quelle persone politicamente impegnate. Hai vissuto il farti come una contraddizione? No, io no. il sapere che i compagni vi- «Il Salotto di Forlì» Forlì · VialeRoma2, 65 Tel.780684 vevano quelli che si facevano con un atteggiamento fra il "mandiamoli via" e la comprensione in qualche modo rafforzava in me l'idea di continuare a farmi, l'idea che la mia scelta aveva una sua logica. "Mi sono sempre sentito rifiutato" -pensavo- "va bene anche questa; è una conferma che ho scelto la strada giusta". Per me eracosì, negli altri non lo so. Perchè dici non lo so? Non se ne parlava? Oquanto si parlava? Mi sembra che si parlasse molto a livello culturale, a livello esistenziale, a livello razionale, però mi ha sempre colpito il fatto che fra di noi ci fossero delle censure, che uno non potesse dire tutto quello che provava ed io pensavo "Bè, se ci si censura fra degli amici. come siamo messi?". Però il bisogno di appartenenza era così forte che pur di far parte di un gruppo in me funzionava come per dire "Vabbè, lascio indietro una parte di me che magari può dar fastidio agli altri, pur di far parte di un gruppo, pur di non sentirmi solo, pur di non sentirmi isolato, pur di non sentirmi uno sconfitto." Perchè in fin dei conti ogni isolato è uno sconfitto. Da una parte la droga funziona come strumento di liberazione dalle tensioni, mentre dall'altra continuano ad esistere censure così forti... Sì, d'altra parte certe cose quando ci si fa non si toccano, se non in rari momenti di sofferenza o di particolare benessere. Però in generale si sfioravano, non si arrivava fino in fondo. Ricordo che solo un anno fa, con una persona che faceva parte del mio gruppo, siamo arrivati a dirci: "Ma insomma, tu perchè cazzo ti facevi?" Non ce lo eravamo mai detti. E' difficile andare a trafficare attorno alle proprie sofferenze. Le dinamiche del nostro gruppo non erano molto diverse da un qualsiasi gruppo di giovani. Però mi sono chiesto, dopo, perchè fra le persone che hanno vissuto queste esperienze rimane sempre qualcosa, un feeling irrazionale, qualcosa che fa pensare:" quelle persone lì mi sembra di capirle più delle altre". La risposta che mi sono dato è che forse il cemento era a livello di sofferenze. Poi del gruppo fanno parte riti che col tempo diventano importanti. li rito del farsi insieme, iI rito del buco, iI rito della"roba", il rito delle attese magari di I O ore per aspettare quello che ce l'ha. Il condividere queste cose forma un qualcosa che resta. Però niente di più profondo. di più interessante. Ma una sensazione la sento, al di là di tutto, al di là del grande bluff che rappresenta lo stare insieme con la roba: la sensazione che c'erano persone che valevano, eravamo persone che avevamo anche del valore. ma che non veniva fuori. a parte qualcuno che riusciva a barcamenarsi meglio degli altri. C'è diffc. renza fra il modo che c'è ora di farsi ed il modo che c'era tempo fa? lo credo che se c'è una differenza ci sia solo negli aspetti esteriori.Non c'è più lo stare in piazza dalla mattina fino a notte come facevamo noi in gruppi di 20,30 o 40 persone. Adesso si fa più di nascosto, nel le case, perchè c'è più paura della polizia, c'è più paura del rifiuto, del sapere che l'eroina demonizza le persone che ne fanno uso. Però nelle motivazioni di fondo no, non c'è differenza. si va incontro ad un senso di stanchezza Secondo te, può esistere una coscienza del farsi? E' possibile, essendo tossicodipendente, distinguere fra ciò che si può arrivare a fare e ciò che invece non si farebbe mai, neanche per la roba? Si, secondo me esiste qualcosa. Più che coscienza, la chiamerei subcoscienza, qualcosa di ancestrale, di radici per cui uno dice "per quanto sia, io non farò mai certe cose" tipo picchiare i genitori per farsi dare i soldi, rubare la pensione alle vecchiette, etc. Certo che quando si è dentro si fa fatica a tenersi. Quando uno sta male, di fronte ali' urgenza di uccidere questi sprazzi di lucidità che vengono fuori, di vincere il male dell'astinenza, non si fanno tanti ragionamenti dicoscienza, certe cose non le fa perchè non gli vengono, ma se potesse, fregherebbe il miglior amico, non è che gli frega di qualcosa. Invece, rispetto allo smettere, cos'è che fa scattare lamolla? Io penso che dopo un certo numero di anni si vada incontro ad un senso di stanchezza. Ciò che conta può essere trovare la comunità giusta, un gruppo di persone giuste, uno stato mentale di stanchezza. Ne ho conosciuti pochissimi che hanno smesso dopo un anno o due che si fanno. E' necessario, in genere, un certo percorso, ritrovarsi in merda una, due, cento volte. Poi, quando ci si ferma per qualche mese in una situazione in qualche modo privilegiata, succede qualcosa dentro, c'è chi sviluppa interessi verso situazioni, verso la vita, c'è chi invece non ci riesce, c'è chi proprio non ce la fa. Poi si smette in tanti modi, c'è chi semplicemente sostituisce una sostanza con un'altra, per esempio il bere: ed ammettono che la vita era di merda prima, e di merda continua ad essere. La comunità, rispetto a questo, cosa da? La comunità conta molto se vi sono persone che non creano dipendenza dalla comunità o dalla personalità del dirigente. ma tendono proprio a liberare una persona, a non reprimerla, persone che fanno in modo che non ci si vergogni di quel che si è, anche se si fa schifo. In comunità si trova, in fin dei conti ciò che uno crede di cercare. offre dei momenti per stare insieme, anche molto belli, con persone con cui si erano vissute certe esperienze e con cui dopo si può dire •·non ci eravamo mai parlati così'·, anche se magari le conosciamo da vent'anni. Hai scelto tu il momento in cui uscire dalla comunità? La prima volta che sono entrato, nell'87, ho fatto sei mesi, poi sono andato via e partendo mi dicevo: "adesso vado a farmi perchè tanto io non ce la farò mai". Poi, dopo circa otto mesi sono rientrato e lì ho finito. Quando sono uscito è stato un accordo preso insieme ai dirigenti della comunità. Sono statodentrodall'inizio '88 fino ai primi mesi dell'89, cioè circa un anno. lo mi considero uscito dalla comunità solo da quando sono tornato a Forlì. Prima ho lavorato per la stessa comunità, ero responsabile di un appalto esterno, per cui c'era un contatto abbastanza stretto con la comunità. ci voglio veder chiaro voglio sapere tutta la verità Ad un certo punto ho sentito io il desiderio di staccarmi, perchè volevo mettermi alla prova, volevo verificare se non mi facevo solo perchè ero ancora legato alla comunità.A volte mi sembra così poco che ho smesso, anche se sono ormai circa tre anni e mezzo. Poi, rientrando a Forlì, ho cominciato un corso con uno psicologo. Quello che mi manca è l'elaborazione di tutto quello che è successo: perchè io provavo questi sentimenti di inferiorità, da ragazzo, questi disagi, la pastiglia con il Biancosarti, il fumo, gli acidi, perchè in condizioni normali io stavo in casa per il fatto che non avevo il coraggio di uscire. Insomma, ho bisogno di capire come succede un'esperienza così, e adesso sto facendo questo percorso con lo psicologo, e mi accorgo che è una cosa che durerà a lungo, perchè io sono curioso, ci voglio veder chiaro, voglio sapere tutta la verità possibile; probabilmente è l'unico modo di riconciliarmi con me stesso, dirmi: "non è successo poi il finimondo". Sento proprio questa cosa: voglio capire. Si torna da questa esperienza anche con una grossa voglia di capire meglio gli altri, di vedere le ragioni anche degli altri. Comprendere la propria sofferenza aiuta anche a sforzarsi di metterci dal punto di vista dell'altro ... Devo dire che ho visto una complessità individuale molto più ricca di quel che immaginavo e pensavo. Sapendo mettersi anche nei panni degli altri, si scoprono lati delle persone che fanno pensare che non esistono più gli stronzi fino in fondo. cioè che non è così facile la faccenda. Adesso che sono più a contatto con le persone. imparo a parlare, a stare insieme a loro. vedo che spesso c'è una mancanza di coscienza, mancanza di voler andare fino in fondo, ma la gente è molto più complessa di quel che pensavo io. Se vuoi, anche più ricca. Certo è che ho visto che moltissimi fra quelli che si fanno hanno avuto problemi familiari, troppi per pensare che è solo una casualità. Quante strozzature ho visto da parte di madri, da parte di padri che in famiglia sono solo una figura che passa per la casa, che fa da sottofondo e poi scompare, padri insistenti, madri soffocanti, poco affetto o strangolamento da affetto. Mi viene da dire che tutto questo non può essere casuale, l'uomo ha ancora bisogno di riconoscersi in delle radici. Anch'io non ho mai sentito il legame della famiglia, e questo l'ho notato spesso in comunità. Ti faccio l'esempio del mio caso: quando per una serie di motivi e difficoltà e perchè sono sieropositivo da cinque anni, una persona non ha la capacità di esprimere la propria affettività, la propria tenerezza, la propria sessualità, gli manca una fetta grossa di vita, ha uno squilibrio. Trovare il modo di vivere una vita creativa, nel senso di conoscere le proprie capacità e metterle in atto, fare una vita che soddisfa, in cui il lavoro non è solo un dovere, ma una cosa che si fa con piacere, fare delle cose che interessano, è una cosa difficile. Io sono uno che vuol vivere e vuole lottare per non restare solo nella vita, ma se dev' essere così, cosa vuoi che ci faccia. Parlavo di questo al telefono con mia moglie recentemente. presto ci incontreremo il cammino è questo E tua figlia? Abbiamo cominciato a sentirci al telefono da qualche mese, perchè prima per la tossicodipendenza, poi per la diffidenza di mia moglie e dei suoi genitori, non riuscivo a parlare con lei; adesso abbiamo cominciato a parlare per telefono una volta alla settimana e ci scriviamo, il cammino è questo, presto ci incontreremo. Facciamo delle belle chiacchierate per telefono, lei ha 11 anni e abita a Roma, sento che lei ha bisogno di dare risposta a domande del tipo: "ma lui è diverso? Quanto ci assomigliamo, e quanto no?" Non si può fare a meno di vivere, se non a prezzi altissimi, senza questi bisogni di sicurezza che una persona esprime. Quando parlano di nuove leggi mi viene da ridere, perchè tanto ci sarà sempre gente che continua a farsi. continuerà a bere e via dicendo. Possono mandare i bombardieri in Colombia. ma non cambierà nulla. a cura di F. Fabbri e R. Galeo/li Nei locali ex EDEN CINE-TEATRO TIFFANY Non esiste un miracolo semplice Forlì - viale della Libertà 2 - tel. 33369 RISVEGLI TESTIMONE PIU' PAZZO DEL MONDO conSteveMartinregiadi HerbertRoss seguirà: dellostessoregistade"Lamosca"e di "Ghostbusters" SCAPPIAMO COL MALLOPPO conGeneDavis chiusuraestiva dall'8 luglio al 1 O agosto • • AQUILA NERA con JeanClaudeVanDamme ShoKosugi regiadi EricKarson chiusuraestiva dal 15 luglio al 10 agosto basatosuunastoriavera Robert De Niro • Robin Williams Diretto da Benny Marshall chiusuraestiva giugno-luglio-agosto Forlì - via Medaglie d'Oro 28 per informazioni tel. 400419 - 33369

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