Terza Generazione - anno II - n. 8 - maggio 1954

, ate a cereali verso il pascolo, e la trasfor– maz10ne dell'ordinamento fondiario delle tesse zone dalla piccola proprietà alla conduzione a schiavi in latifondo. Ma la crisi delle zone cerealicole basta a dichia– rare la crisi di tutta l'agricoltura italiana? Sorge a questo punto il problen1a della diffusione delle colture arborate, del loro significato, della loro importanza. L'olivo era una coltivazione molto antica, ma la sua diffusione non contrasta con la crisi delle cC'ltivazioni erbacee. Da una parte infatti essa si estende con le piccole proprietà, in– torno ai centri abitati come alternativa alla crisi della granicoltura; dall'altra essa si estende nei latifondi associata al pascolo. Nel primo caso la coltivazione dell'olivo garantisce un reddito fisso, nell'altro il pa– scolo garantisce un reddito accessorio finchè l'olivo non è in produzione. Esistevano an– che zone dove l'associazione mancava, ma si trattava di olivi selvatici raggruppati in selve. Quanto alle vite anch'essa si diffonde sul– le terre impoverite e nel periodo di mag– gior abbondanza di schiavi: la sua col– tura pennette di sfruttare in forte misura una capacità lavorativa che costa poco. Anche qui però una grande produzione e un largo investimento di capitali mancano e c'è piuttosto un investimento di lavoro. L'estendersi del latifondo a schiavi non comporta certamente ciò che alcuni riten– gono, che cioè essa abbia introdotto una economia capitalistica nelle campagne, di– minuendo i costi e migliorando tecnica e produzione. Abbiamo visto come l'introdu– zione del lavoro degli schiavi abbia provo– cato un peggioramento della tecnica e della produzione, basta ora ricordare le carat– teristiche di consumo nel mercato italiano per escludere ogni interesse a migliorare la cultura « oltre la cinta a campi e orti » alle città. Pur avendo la coltura dell'olivo e della vite un'estensione più limitata, alcuni au– tori tra cui il Mommsen ritengono che si possa sostenere l'esistenza di un carattere capitalistico per queste colture. Se è fa– cile ritenere che una parte di produzione d1 olio eccedesse il consumo dei produttori e fosse venduta sui mercati locali è difficile affermare su questa base l'esistenza di una economia capitalistica allo stesso modo co– me è difficile sostenere il carattere capita– listico della pastorizia antica perchè por– tava sui mercati i prodotti dei greggi. Anche per la vite bisogna distinguere tra dell'epoca imperiale. produzione per il consumo e produzione per il mercato: se ancora al tempo di Au– gusto si sentiva parlare della scarsa con– servabilità e resistenza al mare dei vini italiani si può pensare che la produzione per il consumo non abbia potuto non pre– valere a lungo. I vini cominciano a com– parire sul mercato dopo l'epoca di Catone e- furono sempre sostenuti: cosl nel 161 si proibl l'importazione del vino e poco pri– ma nel 185 a. C. si era proibito di vendere il vino greco a più di 8 denari l'anfora, ciò fa pensare ad una concorrenza basata sulla qualità del vino greco. Si può comunque concludere che si trattava di un mercato di lusso dove per altro i vini italiani non resistevano al confronto qualitativo con quelli greci. Anche ammesso che la produzione del– l'agricoltura arborata eccedesse i limiti del– lrt produzione di puro consumo, e fosse quindi venduta sui mercati dei centri abi– tati, è sufficiente questa caratteristica per affermare il capitalisn10? Crediamo per molti motivi di no. Per esempio, la tenden– za all'investimento di capitale nella terra fu sempre scarsa, anche se l'acquisto di terre, come garanzia di rendita, continua fino a11a tarda età imperiale. Columella notava una cronica e antica deficienza di capitali, ma solo sotto gli Antonini si ha la prima impostazione di una politica ereditaria, per altro subito dopo divenuta incerta e sal– tuaria. Anche immaginarsi una lotta tra conta– dini italici e romani e « capitalisti » pro– prietari di latifondi è una trasposizione nel tempo di una immagine moderna. La lotta esisteva tra i ricchi e i poveri a Roma per le assegnazioni dell'ager publicus; le città minori generalmente stavano a vedere: nella loro statica economia di consumo, coesiste– vano accanto al latifondo, o piuttosto ne erano circondate. Ogni volta che a Roma la lotta era de– ci sa nascevano nuove colonie o nuovi lati– fondi, aumentava o din1inuiva la zona agri– cola. In tutto ciò poco pesava l'opinione degli abitanti del luogo che, quando c'erano ancora, sapevano bene che per loro deci– deva la forza delle legioni. Latifondo e piccola proprietà non sono fino al tardo impero, infatti, termini esclu– dentisi, ma elen1enti della dialettica eco– nomica e sociale del mondo romano. Roma non supera infatti fino a tarda età impe– riale il concetto che l'optimum sociale sia fondato sulla piccola proprietà, e il suo ri– stabilimento ritorna con i Gracchi, con le guerre sociali, con le colonie dei veterani prima e dopo Augusto. l\1a ragioni sociali, (guerre e coscrizione militare, lotte civili e conseguenti confische, attrazione dei citta– dini coloni a Ron1a, ecc.) continuamente agiscono in favore del formarsi del lati– fondo. Il latifondo comincia con l'introdu– zione degli schiavi nelle proprietà n1edie e grandi che sostituiscono le piccole antiche

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