Terza Generazione - anno II - n. 5 - febbraio 1954
una mitologia precisa che comprendeva tutto il mondo delle possibili azioni. Il fa– scismo era una categoria, una forma pura. JVon più idoli. ma nemmeno ideali La guerra, la seconda guerra mondiale, ha cancellato tutto ciò. l\.Ja la sua forza di– $truttiva, incontrollabile come per ogni guerra, è andata oltre: travolgendo tutti i /alsi idoli della « gene1·azione mussolinia– na » ha travolto tutto ciò che ne era al di sotto: tutta quell'altra possibile tradizione, reale non mitica, normale non grandiosa, umana non « legiona1·ia ». Ha travolto an– che le radici vere della mitologia fascista: i valori. La nuova generazione, la nostra, ha tro– vato dinanzi a sè questo vuoto assoluto: non più mitologie, ma nemmeno valori; non più idoli ma nemmeno ideali. Una generazione lasciata a se stessa: le era of– ferto soltanto un ,valore negativo: l' anti– fascismo, dimenticando che essa era stata sorpresa nel mezzo della frattura, aggan– ciata per educazione e inerzia al passato che « si deve rinnegare », ma calata, poi, nel present~ che essa non riconosce. S'è la– sciata, così, tutta una generazione, esaltata nel nuovo spirito, ma priva di valori mo– tori. Ritrovare la nostra tradizione: è prima di tutto una esigenza, è per ciò stesso un motore delle nostre azioni. E' un' esigen– za insopp1·imibile e vitale, perchè è ciò che ci fa sopravvivere, mentre il mondo puzza di morto racchiuso nelle sue due bare, per– chè è ciò che ci fa sentire vicini a coloro (gli unici) che ci hanno insegnato vera– mente qualcosa: a Gobetti, a Pintor, a tut– ti quelli che, cop voce umana, ci hanno in– dicato i primi passi di ogni nostra possi– bile azione. (Chiarire il valore dell'insegnamento di questi nostri maestri, non è facile, perchè il legame che ci lega a loro è situato in una zona forse sentimentale, certo piutto– sto oscura del nostro essere. Quando, du– rante il fascismo, noi eravamo troppo gio– vani per effettuare quell'opera di critica che ci salvasse, e ci eravamo gettati con ardore tra le braccia del « romanesimo im– periale >, non v'era alcuno, specialmente nello sterile ambiente di provincia, che ci insegnasse qualcosa. Quando « dimostrava– mo • le necessità della guerra contro la « perfida Albione>, non avevamo un fra– tello maggiore che ci prendesse a scapac– cioni. In seguito, quando cominciammo a sentire in bocca l'amaro sapore della disil– lusione, fu la scoperta di questi « maestri> che ci impedì di diventare una « genera– zione bruciata>. Così, con Gobetti sentim– mo che l'anti/ascismo era questione di sti– le. E in Pintor trovammo il fratello mag– giore che poteva prenderci a scapaccioni. Così sapemmo che qualche nostro fratello aveva trovato, in un'era sicuramente di– sperata, la forza di una resistenza. Così credemmo di essere i depositari di questa resistenza; capimmo lo spirito che la muo– veva e credemmo che noi, che non ave– vamo potuto partecipare alla lotta. nelle città saremmo stati la prosecuzione di quello spirito: non conservatori di un fuo– co sacro, ma esecutori di un'opera di cui erano state gettate le fondamenta). I valori al di fuori della crisi Ed è proprio sul piano umano, che dob– biamo ope1·are, alla ricerca della nostra tradizione. Andiamo, infatti, alla ricerca dell'uomo, dell'unità dell'uomo. Quando i pittori saranno ancora capaci di rappre– sentare le scene delle leggende in abiti moderni, come sapevano fare fino alla Ri~ voluzione francese, quando sarà finita la disintegt·azione della figura umana, quan– do si sarà trovato il linguaggio dell'uomo, allora avremo trovato la nostra tradizio– ne, che potremo opporre al fascismo co– me all'antifascismo, e sarà «rivoluzione», non restaurazione. Questi sono i valori che dobbiamo ri– trovare: sono questi che, confusamente, ci legano alla Montagna (che è qualcosa di più, è lo spirito, della Resistenza), sono questi che, sia pur confusamente, ci fanno superare il fascismo e ci escludono dalla società attuale, sono questi la « generazio– ne». Per ciò dicevo « mito noi stessi, ge– nerazione>. Non è creazione di un mito: non li possiamo creare i miti: mito è la « chiarezza delle nostre intenzioni >: mito quindi questi valo1·i che sono la nostra forza e il nostro motore. Non possiamo delinearli, questi valori, nè descriverli: il linguaggio non ce lo per– mette: sarebbero dei neologismi non anco– ra coniati. Ma perderanno tutto il sapore di neologismo, quando potremo descriver– li, perchè il linguaggio dell'uomo ce lo permettet·à. Sono, però, valori al di fuori della cri– si: in base a essi, infatti, noi veramente po– tremo avere una « intelligenza della cri– si> e formarci una « cultura al di là della . . crisi ». (L'opera da svolgere, per ritrovare que– sta nostra tradizione? Non lo so. Compren– do l'importanza di uscire dal piano delle esigenze, ma come poter dire qualcosa di sicuro? Quello che possediamo è questa capacità di analisi, questa potenzialità di superamento e anche un dato di /atto, evi– denziale, che è il nostro punto di parten– za: la « quota zero >. Possiamo per ora so– lo approfondire l'indagine, studiare e rin– tracciare le cause, accennare le problema– tiche: risolvere, non credo. Certo, ci è indispensabile compiere que– sto lavoro: è la nostra stessa speranza, ol- tre che il nostro compito. Abbiamo il più sacro rispetto per le vocazioni personali: e questa è la vocazione di tutta la nostra generazione. Possiamo restringerla nelle varie competenze, potremmo immiserirla nelle tecniche particolari: ci sarebbe ugual– mente e comunque presente. Non ricono– scerla significherebbe rifiutare l'unica pos– sibilità che ci è ofjerta di fare qualcosa pe1· la soluzione della crisi: porci, cioè, sul piano del politicismo e accettare una socie– tà nella quale non abbiamo funzione). La speranza di una tradizione nostra Noi gio1 1 ani non siamo idolatri di noi stessi, per esserci messi in una posizione dive1·sa da quella dei nostri contempora– nei, per aver rivendicato a noi stessi la ca– pacità (e un po' l'esclusività) di formulare sifjatti giudizi. La nostra posizione ci vie– ne dalla nostra giovinezza. Il dover costi– tuire il ponte tra il fascismo e il post-fa– scismo, per essere noi stati la generazione senza maestri quella che sarebbe stata l'ul– tima leva del fascismo, l'essere noi la « terza generazione » nelle classi dirigenti italiane, il trovarci poi praticamente (ed è una constatazione) isolati ed esclusi in questa società, che elimina pezzi di storia del suo passato come fosse una costruzio– ne a compartimenti stagni, tutto questo in– sieme di situazioni ci ha dato tale capacità. Siamo un po' anche noi la « generazio– ne della guerra »: solo che non abbiamo più la sicurezza delle nostre azioni politi– che (e non ne effettuiamo) nè « speranza di grandi cose >. Abbiamo una speranza più recondita, che coltiviamo e man ma– no 1·11fjorziamo:è la speranza di avere una nostra tradizione. Siamo lontani dalla ge– nerazione della guerra, anche se noi pure siamo una « generazione della guerra>: tra l'una e l'altra guerra, però, c'è stato il fascismo, per noi italiani, e nel mondo la frattura è divenuta un abisso. Non pos– siamo più credere, quindi, alt'« ordine nuovo » e alle possibilità positive della vio– lenza: la nostra rivoluzione è ormai molto lontana da quella di Ottobre o dalla mar– cia su Roma. Stiamo invece operando una silenziosa rivoluzione in noi stessi: e sui canoni di questa attività rivoluzionaria, sulla base di questi valori umani che an– diamo riscop1·endo, fondiamo il nostro giudizio. Per noi la storia è soltanto « dimensio– ne umana»: quando avremo collocato nuovamente l'uomo nel suo giusto posto, quando avremo ricreato l'equilibrio tra l'uomo e la realtà, in maniera che l'inter– dipendenza di questi termini non sia più abnorme e sproporzionata, allora avremo una brillante tradizione, che ci farà sicuri da tutti gli « accidenti > della storia. LUCIANO FABIANI · ~ Autoriz 1no del Tribunale di Torino n. 849 del 20 ottobre 1953 • Spedizione in CO abbonamento postale Gruppo III • ltalgra6ca- forino- Piozza Perotti, J
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