Terza Generazione - anno II - n. 5 - febbraio 1954
tramuta in una compiacenza formale o al massimo in un motivo polemico. Sicchè la mobilitazione morale, la rivoluzione per– manente considerata come un fine quando deve realizzarsi attraverso un intervento del– lo Stato, rivela una contraddittorietà fonda– mentale. Forse per attutirla e nasconderla si accresce e si propaganda sempre di più il mito della fedeltà al capo, al duce. Esso trova proseliti soprattutto tra i giovani che non hanno fatto in tempo a fare la guerra , e hanno visto nella lotta di squadra il suo surrogato, fa presa in molti del popolo che ravvisano nel capo uno dei loro, sollevato dal genio e dalla fortuna, ma non suscita l'azione spontanea e la tensione di base, che anzi riduce a un'acquiescente passività. Del resto tra i capi fascisti, il solo Balbo ' dimostra di sentire che la mobilitazione si compie con lo stimolo a nuove imprese: le trasvolate atlantiche, la colonizzazione della Libia assegnano obbiettivi di marcia, la conquista dei cieli e dei deserti, suscet– tibili di una tensione giornaliera, gravi di rischi, avverabile anche al di fuori dell'im– presa bellica. Per contro, Mussolini, volto in guisa sempre maggiore allo statalismo finisce per ricorrere a quelle azioni di Stato che sono le uniche in grado di contagiare dalla minoranza dei fedeli alle masse una psicosi di rischio e di mobilitazione, ossia alla politica estera. ~Ia quando giungerà il momento, il presupposto, la minoranza eroica che dovrebbe espandere il sublime contagio, verrà meno, giacchè lo Stato ha burocratizzato tutto ed ha abituati tutti a vivere comodamente, ad adagiarsi nel collettivo, senza assumere responsabilità in proprio. Nelle nuove generazioni, il tipo nazionale s'identifica col gerarca vil– lanzone e il gregario fanatico. La lette– ratura dell'azione a cui la guerra ha dati nuovi suggerimenti di umanità, si depau– pera e infine si estingue dimenticando l'uomo intero, nella celebrazione della supina obbedienza, dell'idiozia intellettuale e magari di una virilità postribolare. Da movimento senza programma a partito di governo L'esaltazione dell'azione diretta, del ge– sto e della violenza, la morale eroica han– no giustificato la presa di possesso del potere, ma non bastano a giustificare, se non sul piano della pura forz.a, il suo esercizio. Il fascismo deve darsi un pro– gramma di governo. Lo sforzo degli intel– lettuali fascisti s'incammina per due strade: il nazionalismo, comportante il primato dello Stato . e della politica esterna, e il corporativismo, comportante una radicale riforma della struttura sociale interna e in ultima analisi l'autogoverno delle catego– rie ·produttive, dei quali lo Stato diviene espressione. Corporativismo e statalismo so– no nelle estreme conseguenze antitetici: il primato della corporazione significa la su- Biblioteca.GinoBianco bordinazione dello Stato e, viceversa, il pri– mato dello Stato, la subordinazione della corporazione. Il binomio è quindi ua'anti– tesi inconciliabile, e in essa si sono dibat– tuti con scarsa fortuna seppure con note– vole abilità dialettica i dottrinari del fa– scismo. D'altronde, ambedue gli indirizzi teoretici cozzano con una prassi che con– cilia l'uno e l'altro in un burocraticismo borbonico, che appiattisce e mortifica il corpo sociale. Il paese tradizionalmente ri– belle ad ogni dommatismo che non si estrin– sechi in determinate norme di agire è in– differente alle soluzioni che si prospettano. Il convegno di Ferrara del 1932 in– dica che, ridotte ai minimi termini, le teorie fasciste non sanno costruire una propria cultura solutiva della crisi ma sboccano fa– talmente nelle soluzioni già note: cattoli– cismo, bolscevismo, liberalismo, di qui l'impossibilità di andare sino in fondo e la tendenza del capo a evitare il dilem– ma, a scartare le difficili esplorazioni cul– turali, appigliandosi alla risorsa naziona– lista della politica estera, cui si affida la soluzione della questione sociale, nel qua– dro più ampio della lotta àlla plutocra– zia internazionale e della real-politik sug– gerita da Coppola. Tanto più che la po– litica esterna, come si è accennato, assi– cura oltre a tutto un minimo di vita co– munitaria, la fede in una missione, in un destino comune, anche se data la debolez– za delle nostre forze essa non può consi– stere che in un pericoloso gioco d' azzar– do, in cui in ultimo più che il capo lo stellone dovrebbe fare da deus ex machina. Infine si immiseriscono nella xenofobia quelle energie provinciali e rurali che la rivoluzione dell'Italia barbara ha portato alla luce (quantunque non manchi la rea– zione dei più avveduti e al coro dei beceri si contrapponga la voce, esemplare, di Berto Ricci). E si elude il problema fonda– mentale, ereditato irrisolto dal Risorgimen– to, ossia il rapporto .Europa moderna-Ita– lia, che la storia contemporanea ha, dila– tando uno dei termini, tradotto nel nuovo rapporto mondo moderno-Italia. Osservava Malaparte che « solo in quanto è reazione a tutta la moderna civiltà europea, l'attua– le processo rivoluzionario italiano ha ra– gione di essere ». Ma reazione non signifi– ca l'Antieuropa verbosa, l'ingiuria all'Oc– cidente « che non ci ama e non ci vuole » (D'Annunzio), piuttosto al contrario, il ri– fiuto di modi di essere estranei e la ricom– posizione della nostra fisionomia peculia– re; non il ripiegamento in un indigenismo astioso e diffidente, ma la convinzione di potere contribuire con modi propri alla ri– soluzione della crisi. Non si accolgono del resto gli aspetti peggiori dell'Europa: la tecnica del potere totalitario, lo sciovini– smo, le teorie della supremazia razziale, il conformismo alla cultura di moda?' La possibilità d'inserire la massa degli esclusi contadini nella vita nazionale è egualmente lasciata cadere. Ingannato dal– la teoria del primato della questione ope– raia posta dall'Europa moderna, il regime consuma le sue istanze sociali nel tentativo di procacciarsi i proletariati cittadini. L'Ita– lia delle campagne e delle province ripie– ga di nuovo i:iella sua solitudine; si pensa di fabbricare una coscienza unitaria per– seguendo i dialetti. Eppure è l'Italia delle campagne e delle province che «sente> la guerra d'Etiopia ed elargisce al regime un consenso improvviso e incondizionato. La ribellione al mondo dell'Italia senza voce La seconda guerra mondiale rivela così l' affiosciamento burocratico dello slancio primitivo del movimento fascista, l'atmo– sfera levantina dei circoli dirigenziali ro– mani, che giungono rinnegando se stessi a scoraggiare il volontarismo e a rinviare la mobilitazione morale. Solo all'ultimo, quando il regime è già stato sconfitto al- 1' interno e all'estero, i capi superstiti fan– no appello ai gregari trascurati, nella spe– ranza di riformare l'aristocrazia dispersa. E come il moribondo rivive in pochi atti– mi i momenti culminanti della sua vita passata, così il fascismo della R.S.I., rivive la violenza anarcoide e feroce delle sue origini, le confuse aperture sociali, l'esa– sperato provincialismo, lo stacco dalle di– rigenze statalizzate, la polemica contro tut– ti, l'accorrere di giovanissimi sotto le sue t bandiere e l'imprevista energia di capi lo- t cali. Per questo attorno ai gerarchi di Sa-1 lò si raccolgono, nonostante l'inutilità del-f l'impresa, vecchi dissidenti e frondisti, che vedono ritornare la stagione giovanile del movimento, e quegli uomini di cui il ven– tennio burocratico ha premuto e impedi– to, s,alvo lo sfogo insufficiente ed esterno, delle guerre fasciste, la volontà rivoluzio– naria e sovversiva contro un mondo in cw, non trovano posto. Sono coloro a cui si adatta ciò che ha scritto a suo tempo di sè Marcello Gallian: « €'è un mondo che tar• da a morire e mi acceca e mi succhia le vene senza che io possa ribellarmi in mo• do concreto e definitivo: per questo modfJ a un cenno, abbandonerei i figli e i libri e mi getterei subito allo sbaraglio, comt un tempo». Il ventennio frustra la creati . ' . . . , . . . vita 1ns1ta 10 quest atteggiamento positiva mente barbaro e antimoderno; il fascismc di Salò offre uno sfogo distruttivo alle su, f languenti energie, disseccandone però i fer menti innovatori. Quale la lezione del fascismo? Essa , implicita in quanto si è detto: a mio pa rere, la nostra esperienza se ne arricchirà. i se ne ricaveremo un senso di scoperta d situazioni e di uomini e la constatazion di un'Italia senza voce, irriducibile all parti. Luoov1co lNc1sA
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