Terza Generazione - anno II - n. 4 - gennaio 1954
Ed è appunto su que.~ta via, do l)e l'iniziativa dei giovani di Firenze si dimostra non suffi– cienteniente ese1nplare, che bi- . sogna fare dei passi avanti. Problemi alla portata dei gio– vani esistono in ogni luogo: basta identificarli. Firenze è al aentro di una zona immobile a causa di molti problemi strut- turali di grande complessità (la decadenza della mezza– dria), ma esistono de"Ttlezone ove q11,alcosa si può fare, in particolare a nord-est della città, da Monte Giovi all'Al– pe di San Benedetto, per resta– re sul terreno dell'iniziativa nei paesi : bisogna muoversi, studiare, trovare degli amici, precisare l'atteggiamento e il perchè dell'azione. Q1,1,estoperchè si è convinti della necessità di quel che si sta facendo: le diffidenze, le perplessità verso gli iniziatori di T. G. possono anche rima– nere. La, rivista è un'iniziativa come le altre, un contributo di alcuni al lavoro di tutti, che va raccolto per quello che serve. Questa è la gente e questi sono i paesi che hanno bisogno di '' Terza Generazione ,, Caro Ciccardini, ti . cri vo in relazione alla tua Proposta agli universitari. D'accordo con te sulla diagno– si del male, voglio qui propor– ti alcuni elementi di discussio– ne circa il rimedio da te indi– cato, e suggerirti il risultato di alcune mie esperienze a pro– posito della massa squalificata degli studenti di provincia. Tu indichi come rimedio la realtà, inciti gli universitari a tenerla come maestra, per trovare una via di reinseri– mento degli studenti nella so– cietà, una via che attualmente l'università non offre, essendo ridotta la sua funzione a un fatto puramente amministrati– vo, o quasi. E fai una contrap– po. izione tra la «vita>> della realtà, e le consunte parole dei li~ri, a cui siamo troppo lega– ti nelle nostre valutazioni. Par– la re di una realtà, isolandola come tu fai, è fare un discor– so generico. E noi siamo alla ricerca di un contenuto, vo– ~liamo specializzare quello che ~ fuori di noi e in noi, voglia– mo rendere chiari i termini del generale problema, e chia– rire a noi stessi la via di una 'Soluzione. Mi sembra difficile una ri– cerca di realtà che sia esclusi– ,..amente umana, e non più precisamente culturale e u– mana. In nessuno di noi è sta– to sufficiente, infatti, il desi- derio di solidarietà con alcuni trati f,,Ociali di cui la nostra tradizione culturale non si è mai occupata, a determinare ·a necessità di quelle relazioni l'mane di cui si parlava in 1Itra parte della rivista. e che mno una ricerca di realtà. E' -<tato il desiderio di solidarie– il, ed è stata la frattura che ,~nuno di noi ha avvertito BibliotecaGino fra l'università, ridotta a un fatto puramente strumentale, e l'individuazione della realtà come desiderio finale. Sono state le parole di una cultura consunta, chiusa a ogni aper– tura umana, che ci hanno ad– ditato la via dell'umanità. E' stata la problematica della ge– nerazione crociana, vicina al– la nostra inquietudine, alla nostra ricerca, il che significa partecipazione. In tutti questi fatti è da cercarsi l'impulso che ci muove. Noi stiamo chiedendo, so– prattutto agli indifferenti, di definire la comune qualifica umana. E in questo senso sono inte– ressanti, per l'allargamento del nostro discorso, le maggio– ranze provinciali e squalificate delle nostre università. Tu, ca– ro Ciccardini, esamini la loro posizione tradizionale : paese come partenza, università co– me mezzo di una evasione fa– cile, con tutte le apparenze del rotocalco. Questa tua ana– lisi di una posizione tradizio– nale è vera solo in parte. Io ti parlerò dell'attuale po– sizione degli studenti di alcu– ne delle zone depresse del Mez– zogiorno. La situazione degli universitari di Potenza, ad esempio. Per loro la tua pro– posizione è da invertirsi : pae– se come fine, università come partenza. l\'Ia i termini fine e partenza hanno significato op– posto se attribuiti ai «tuoi» universitari di provincia, o a quelli che per brevità chiame– rò miei. Il paese è il loro fine, dato che al paese essi sono ancora qualcuno, e la laurea rappresenta l'occasione di po– ter tornare qualificati al pae– se, più che per lavorare nello studio o n~lla clinica del pa- 1anco dre, professionista piazzato, per poter dire di essere arri– vati. Ed è quest'ultimo, l'a– spetto più gustoso del ritorno. Altri poi, non prenderanno mai una laurea, sono iscritti in– fatti all'università da un im– precisabile numero di anni, e han trovato cosi soddisfacen– te il mestiere di universita– rio, da fondare persino un Cir– colo Lucano Universitario, di cui sono i pilastri e la espres– sione più duratura. Giocano a carte e al biliardino, al Circo– lo, nei lunghi pomeriggi inver– nali che sono notte immedia– tamente, e non hanno fame e sete, e desiderio di vita e di azione. Una schiacciante minoranza si trova a essere compresa nel– la « tua» posizione tradizio– nale, la città come fine e l'uni– versità come mezzo di evadere il paese. Ma neanche questa minoranza rientra nel signi– ficato del tuo schema, e per– chè rappresenta l'unico caso di qualificazione, tra gli uni– versitari del luogo, e perchè, a onta della loro assoluta con– dizione di isolamento, che li ha spinti verso più ampli ag– glomerati umani in una spe– ranza di maggiori possibilità di scelta, sono gli unici che abbiano tentato di rompere la indifferenza degli altri uni– versitari. Hanno tentato con una filo– drammatica, con un Circolo del cinema, con una Società di cultura. l\1a Potenza è un capoluogo, è collegata a Napoli, Bari, Ro– ma, e, in un certo senso, è vi– cina, nel suo tipo di provincia– lismo, a quella provincia me– no provincia che è Napoli, a quella quasi « città » di mare che è Bari, a Roma. Ci sono situazioni ancora più disperate. Yiggiano, ad esempio, un paese dell'alta Val d'Agri, gri– gio, nero, apatico, il più triste della valle che è aperta, chia– ra, densa di opere. A Viggia– no si arriva con una corriera traballante da Potenza o da Lagonegro. I treni apparten– gono ad altre civiltà, ignoti mostri di progresso. Ogni tan– to una macchina interrompe il silenzio del paese, e gli scarsi universitari locali si affaccia– no sulla piazza, tralasciando per qualche secondo il seco– lare scopone col morto, col vi– vo, scientifico o meno. Gioca– no dalla mattina alla sera, e l'alternarsi delle stagioni ha un volto per loro in autunno e in prima vera, per le sessio– ni d'esame, e non sanno di partenze e di mète. Sono stan– chi del paese e insoddisfatti delle città, non hanno riflessi visivi o sensitivi nè per la gen– te che vi ve nei tuguri, nè per quella che muore nei rotocal– chi. Imprecano continuamente su tutto, (e continueranno a farlo anche quando saranno medici o avvocati a Craco e Certosimo) sul paese e sulla città, sui vivi e sui morti, sul– la miseria e sulla ricchezza, sui clericali e sugli anticleri– cali, sulle puttane e sulle biz– zocchere. Questa è la gente, e questi sono i paesi, che hanno biso– gno di Terza Generazione, dei centri di relazione, del nostro aiuto. Bisogna che essi apra– no un dialogo con loro stessi, perchè possano poi trovare la via della realtà e dell'umani– tà. Potrei ancora dirti, Ciccar– dini, che non è facile solleci– tare l'interesse degli universi– tari, proprio di loro. Potrei dirti che la loro mente mi sem– bra un pantano, e la loro vita un letargo perenne. Potrei rac– contarti delle mie solitarie ri– cerche di un metodo per arri– vare a svegliarli, quando io non cercavo una generazione, ma la realtà, che io chiamavo vero. E potrei dirti anche che la gente dei loro paesi ha biso– gno di loro. La gente dei tu– guri e delle capanne è stanca di tacere, prima che di riven– dicare sente il bisogno di co– municare, e questo è sintomo di una dolorosa maturità, da
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