neo non è forse un concetto un po' abusato negli ultimi tempi? Il Mediterraneo sta firmando troppi autografi, e questa enfasi lirico-turistica rischia di convivere con il trasformismo. Ma è un pericolo che è meglio correre perché illustra un mutamento della sensibilità che è necessario attraversare. Il riferimento alla drammaticità di Pasolini e di Camus vuole proprio mettere al riparo il mio discorso da fraternità mediterranee troppo disinvolte, da un estetismo compiaciuto. Il pensiero meridiano non si esprime nei "club Med" né fa un'apologia della marginalità. Io penso al Mediterraneo come misura tra terra e mare, tra identità e sradicamento, come molteplicità di forme di vita e di culture, come critica al primato dell'economia, all'integralismo della corsa. Anche il marxismo ha commesso l'errore fatale di porre l'accento sullo sviluppo "pieno" delle forze produttive, mentre ambiva al tempo stesso alla liberazione dall'alienazione, ma le due esigenze sono in contraddizione tra loro. L'idea che ci si possa mettere nelle scia dello sviluppo illimitato per poi all'improvviso detronizzarlo è un'illusione che speriamo appartenga al passato. Ma il crollo del comunismo, se esaurisce vecchie prospettive ne apre anche delle nuove, pone ali' ordine del giorno la critica della velocità ormai senza freni, di una tecnica autonormativa e distruttiva. Il Mediterraneo relativizza la tecnica, consente di riconquistare punti di vista estranei al ritmo inarrestabile della mercificazione planetaria,·reca in sé la dimensione di "sacri" che resistono a questa tendenza. Tali forme di resistenza albergano in forme di vita tra loro diverse e storicamente spesso contrapposte: si pensi ai conflitti etnici o religiosi. È il momento in cui bisogna superare queste divisioni, smilitarizzare queste culture, metterle in comunicazione tra loro perché scambino le proprie risorse. Occorre por fine alla guerra civile che insanguina questa nuova patria più larga. È raro trovare citazioni cinematografiche in un libro di filosofia, mentre "Il pensiero meridiano" sembra innamorato dell'ultimo Anghelopoulos, il regista greco de "Il passo sospeso della cicogna" e de "Lo sguardo di Ulisse". Perché sono film sul tema del confine, sulla sofferenza e sulla grandezza che si accumulano sul confine. La frontiera è un luogo epistemologicamente più alto, è un luogo doppio, poco sicuro ma proprio per questo più importante per il pensiero. Il centro invece è un punto circondato da una miriade di suoi simili, è prigioniero della ripetizione infinita dell'identità. Il confine è. il contatto con l'altro da sé. Il Mediterraneo è un luogo di confini e di mediazioni, offre una risposta all'assolutizzazione dello sradicamento e a quella del radicamento, non è oceano né terra. Il Mediterraneo è anche l'affacciarsi del mare sul deserto, una grande risorsa simbolica, dalla tentazioni di Cristo all'Esodo, risorsa che si è addolcita ma non dissolta sul mare. È una dimensione culturale alta che non si riconosce nel fondamentalismo del- !' economia, laddove il capitale postfordista, l'unico vero cittadino felice dello sradicamento planetario, distrugge la società, incremenra l'angoscia non solo nell'operaio, ma anche nel manager. Questo stress segnala un limite della razionalità dominante e innerva una miriade di patologie. Come già la psicoanalisi cominciò a capire all'inizio del, secolo, la violenza sui noIDEE stri sud interiori è la chiave per leggere le nostre malàttie, quelle che non trovano nella medicina ufficiale né il nome né la risposta. Esse sono delle crepe nel muro in apparenza levigato del pensiero dominante, d1 quel "pensiero unico" che festeggia la caduta di tutti gli oneri sociali, creando precarietà e solitudine. Così il Sud può ricominciare da sé, non adeguarsi alle ricette altrui, ma suggerire la propria. Direi di più: esso salvando se stesso può aiutare anche il Nord a salvarsi. Non propongo un fondamentalismo del Sud né un neoetnocentrismo. Eppure io credo che si debba far sbarcare la tematica dell'altro sulla terra di un possibile "noi", un "noi" quale emerge da un mare come il Mediterraneo, costantemente aperto fino alla contrapposizione e alla frattura. Nell'enfasi sull'Altro come ricorre in Lévinas (enfasi che anch'io pratico e ho praticato) c'è il rischio che il rifiuto dei commerci sottobanco del disincanto conduca a una contrapposizione frontale a tutte le forze di gravità terrestri. Nella ricerca di santità sia pure laica, è in agguato il rischio di un esiliarsi dal mondo la cui amministrazione si lascia agli altri. Proprio come accade al Grande Inquisitore de I fratelli Karamazov che prende in custodia la terra lasciatagli dai santi tutti preoccupati della propria salvezza. Il Mediterraneo è invece una patria larga, una casa comune sul confine; in essa l'incontro con l'altro non richiede un eroismo, ma è un'antica abitudine, una mescolanza già consegnata nella confusione dei nostri colori, dei nostri profili. Le pulizie etniche non sono solo un crimine, sono anche inutili, non possono arrestare l'idea di una patria più larga. Ma l'idea di una cittadinanza meridiana è anche l'idea di un "noi" che non si accontenta di rimanere sul confine, dentro un'opposizione infinita ali' esistente, che rovescia la sua condizione meridiana in risorsa e non vuole rimanere confinato a Sud. Insomma, si tratta di qualcosa di più larg(! della rivendicazione di un 'identità regionale. E una critica radicale della forma di esperienza dominante. Il paradigma della lentezza non è né un arcaismo né un'usanza regionale da preservare, ma quello scarto epistemologico che consente di cogliere la cecità della velocità senza freni, il suo procedere secondo una progressione geometrica che obbliga a una rincorsa sempre più disperata. E che alla lunga non risparmierà nessuno, neanche quelli eh.e oggi ci sorridono seduti sulla tolda di comando. Insomma occorre secondo me mutare la prospettiva e, dopo una lunga fase nella quale si è giocato fuori casa, provare a giocare in casa: chi è sul confine abita dentro la casa della condizione umana molto di più e molto più in profondità di coloro che vivono in ostaggio della tecnica e dell'economia autonormative. È da questo "noi" pieno di "altri" che occorre ripartire, esso contiene una lingua più universale dei soliloqui degli integralismi. ♦
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