guidare il risentimento popolare verso una qualsivoglia minoranza definita "parassita" il potere si accattiva le simpatie e l'ammirazione delle masse nazionali. Oggi, il più delle volte, l'identificazione del nemico nasce in maniera spontanea, ma può facilmente divenire strumentale agli scopi di un ceto sociale, di un partito politico, di un credo religioso. Gli immigrati incarnano perfettamente lo 'stereotipo del "nemico esterno" contro il quale scagliare l'indignazione pubblica. Le precarie condizioni di vita nelle quali si trovano a dover vivere in alcuni f aesi ospitanti particolarmente incivili come i nostro, fanno sì che la "gente" possa dire che come minimo "sono brutti, sono sporchi, puzzano". Nello scrivere queste parole mi vengono in mente le storie degli emigrati italiani in Svizzera come sono state descritte dal bel film di Franco Brusati Pane e cioccolata. Ricordo la scena che più mi colpì: tre italiani lerci, coperti di cacca di gallina e di piume, fuzzolenti, con i denti tutti guasti, dei cape! i che sembravano scope, ingobbi ti dal lavoro in pollai alti meno di un metro, che spiavano nascosti in un bosco quattro bellissimi giovani svizzeri che facevano il bagno in un laghetto; accanto a loro delle biondissime ariane e quattro cavalli bianchi. L'unico commento che sfugge a uno degli italiani è: «Come sono belli». La presenza all'interno delle comunità di emigrati di (sicuramente non pochi) elementi refrattari alla legalità, rende automatica la convinzione presso la c_omunità ospitante che "tutti gli emigrati sono ladri, spacciatori, stupratori". Non dobbiamo però limitarci e credere che per trovare un nemico esterno contro il quale scagliarsi la nostra società debba trovare per forza dei motivi di legalità o di igiene. Dei marocchini da noi si dice anche che "rubano il lavoro agli italiani", più o meno la stessa cosa che si dice dei messicani negli Stati Uniti o dei turchi in Germania. "' Ma sicuramente il leitmotiv che meglio funziona per catalizzare il malcontento popolare verso le minoranze non indigene rimane quello della difesa della legalità. E questo un valore cui tutti aderiamo, e per la cui difesa ci sentiamo (solo in alcuni casi) tutti in diritto di agire in prima persona. Se ci svaligiano l' appartamento normalmente rimaniamo sconvolti, poi tiriamo quattro moccoli e ci rechiamo in questura a sporgere denuncia sperando di riuscire a dimenticare e a ricominciare nonostante le difficoltà. Ma se nel nostro quartiere è installato un campo Rom abbiamo bell'e pronto un nemico con il quale sfogarci: è risaputo che gli zingari sono tutti ladri. Se ci rapinano per strada, se ci rubano l'autoradio, se ci scippano, gridiamo alla criminalità diffusa, allo Stato assente. Magari indirizziamo il nostro rancore verso l'individuo che ci ha leso nella proprietà o nella persona. Eppure se un sedicenne in motorino ci scippa la borsa non è che andiamo a cercare il primo adolescente in motorino che troviamo per spaccargli la faccia. Se il criminale è un indigeno la responsabilità rimane tutta sulle spalle del singolo individuo. Ma se un bambino Rom ci si avvicina con un cartone per borseggiarci allora diciamo "gli zingari", allora via tutti in corteo per protestare contro la presenza dei campi nomadi nelle nostre belle città. Io conosco molti giovani individui appartenenti alla minoranza etnica Rom. Lavoro con loro nel carcere minorile di Roma. Lavoro con loro come con molti giovani individui detenuti appartenenti alla maggioranza etnica italiana. Sono tutti soggetti che hanno abbandonato la legalità, responsabili individualmente delle loro azioni. Ma è abbastanza logico che questo elementare costrutto mentale non sia sufficiente a contrastare l'atavica convinzione (sulla quale la cultura popolare si è divertita ad aggiungere fantasiose credenze nel corso della storia) che gli zingari siano tutti dei ··& 4-~_ L· . .... , r I-·. ,I\ ..... ..1\.-- ~ - )' - ' \. BUONI E CA7TIVI
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