La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 17/18 - lug.-ago. 1996

ne forzata nelle scuole), scavò un abisso tra i liberali stessi e le classi "bianche" medio-basse (oltre a suscitare diffidenza tra gli stessi neri); tanto più, aggiunge lo studioso americano, che solo una comunità etnicamente omogenea è davvero forte e dunque capace di tolleranza e di rispetto verso altre comunità ... (ipotesi opinabile ma degna di riflessione). Insomma, se !'"altro" entra nel nostro orizzonte soltanto come sciagura (da evitare il più possibile), come dramma (da scongiurare con ogni mezzo) e non come variopinto folklore, come elemento di potenziale arricchimento culturale (tale da consentire quello che Lasch chiama ironicamente "approccio turistico alla morale"), cosa dobbiamo fare? Possiamo affidarci alla classica e ragionevole strategia utilitaristica della riduzione dei danni, del male minore, ecc. Ma formule del genere appaiono infine consolatorie o eufeinistiche, tali da mascherare appena il desiderio imperioso del "legge & ordine". Il conflitto insomma c'è tutto, e può assumere una coloritura tragica. Probabilmente, come dice Enzensberger, siamo tutti molto più nomadi che sedentari (dalle prime grandi migrazioni preistoriche al turismo di massa). Ma quando poi ci fermiamo desideriamo poter scegliere, e proprio a causa della nostra socievole insocievolezza, con chi convivere nella vicinanza. È vero, il nostro paese, a onta della sua apparente eterogeneità, è fortemente monoculturale e monoreligioso, refrattario a ogni pluralismo. Tutto questo potrà spiacerci, anche indignarci, ma non si può certo cancellare con una legislazione ben ispirata. Sembra infatti che l'essere umano non accetti di buon grado melting pot forzati, crogioli di razza decisi in nome di qualche ideologia più o meno ipocrita. Ora, alla luce di queste considerazioni potrebbe apparire inevitabile la drastica proposta dei fascisti di An per Roma, e cioè l'allontanamento dei campi-nomadi fuori dal raccordo anulare. Ma sappiamo altresì che non esiste più qualcosa come "le mura della città", oltre le quali ci sarebbe il deserto. Se insomma volessi dare uno sbocco "politico", di proposta concreta, a queste sommarie riflessioni, mi troverei in grave imbarazzo. Né credo che lo stato debba restare assente su questioni come la tutela delle minoranze, soprattutto delle minoranze deboli, contro ogni maggioranza prepotente. Però, prima di condannare precipitosamente la xenofobia degli altri (per sentirci magari, a parole, tanto cosmopoliti e multiculturali), vorrei ricordare una cosa elementare: le fusioni e le mescolanze etniche, pur auspicabili, lasciamole decidere liberamente agli individui (personalmente sono molto attratto da certe culture extraeuropee, e violentemente respinto da altre), rispettando un po' di più le loro idiosincrasie, senza operare troppe forzature, terapie sociali d'urto o mescolanze coercitive. ♦ BUONI E CA7TIV! PUBLIC ENEMY Giorgio Trentin Qual'è il meccanismo che :;pinge una comunità a reagire compatta, aldilà d1 qualsivoglia barriera sociale o ideologica, di fronte ad una precisa situazione di disagio? La supposta precisa imputazione della causa ad un corpo estraneo alla comunità. È la teoria del "nemico esterno". La nostra società, come molte altre, si sviluppa portandosi dietro forme diffuse di disagio sociale le cui radici sono complesse e molteplici, raramente riconducibili ad un'unica matrice. Ognuno di noi è soggetto a piccole situazioni di disagio quotidiano che si accumulano giorno per giorno, difficilmente trovando una soluzione, una risposta. Sono piccoli veleni che possono scaturire dalle tasse, dal lavoro, dall'ambiente, dal costo della vita, dalla famiglia, dai figli, dalla criminalità urbana. Forse da tutto ciò e da nulla in particolare. Il risultato è una miscela di rabbia e frustrazione che cerca uno sfogo, una risposta allo stato delle cose. In queste situazioni la comunità può riflettere ed interrogarsi sulle cose che non funzionano, oppure può identificare un nemico esterno su cui caricare ogni responsabilità. Grande è il pericolo che grava su una società quando qualcuno si alza in piedi per gridare: "Io so di chi è la colpa di tutto ciò". La storia ce lo ha insegnato, ce lo hanno insegnato i pogrom ed i campi di sterminio, ce lo stanno ancora insegnando i neo-nazisti in Germania. L'identificazione del "nemico" è il meccanismo che catalizza l'insofferenza collettiva. Il nemico deve essere debole, una minoranza, per poter essere attaccato. Anche il processo di identificazione del "nemico" lo conosciamo molto bene. È la più elementare valvola di sfogo di un popolo. Nelle società meno sviluppate il "nemico esterno" viene spesso identificato nelle minoranze non indigene più ricche della media della popolazione. Un esempio per tutti: le campagne di pulizia etnica contro i cinesi in Malesia alla fine degli anni '60. Nelle società progredite invece, nelle cosiddette "società civili", il nemico deve essere la causa cui poter ricondurre tutti i piccoli disagi che avvelenano la vita di ogni giorno della gente per bene o degli strati sociali indigeni meno abbienti. Penso ad esempio all'odio di cui sono oggetto i commercianti coreani nei sobborghi urbani della civilissima America. L'identificazione del nemico può essere spontanea o suggerita. Non ero ancora nato quando Mao dava il via alla campagna contro i "destri", ma so che è facile indicare dall'alto alla comunità un bersaglio da colpire per sfogare le proprie frustrazioni. Nel

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