CINEMA Con Jqhnny Depp via dalla civiltà. Un film di Jarmush GoffredoFofi I due film più interessanti venuti in questa stagione dagli Usa, e forse i più interessanti in assoluto tra quelli visti in Italia, sono Fargo dei Coen e Dead Man di Jarmush. Gli autori sono pressoché coetanei, ma la loro formazione è indubbiamente diversa. I Coen hanno voluto sbalordire con giochi di intelligenza colorata e bizzarra, e dopo prove talora raffinatissime (Crocevia della morte, Barton Fink), manieriste e post-moderne insieme, sono cresciuti con Fargo a una maturità che evita saggiamente le piccole o grandi provocazioni per rivisitare un genere (il giallo) cercando una comunicazione più diretta col pubblico di massa, ma innervandola di tensioni e suggestioni insolite. Esse hanno la loro matrice nella grande letteratura statunitense - quella delle allegorie hawthorniane, per esempio - e rimandano a una interpretazione della civiltà americana e delle sue origini distruttive (la statua di Bunyan il disboscatore, desertificatore delle zone del Nord Ovest in cui i Coen hanno ambientato la loro storia, in cui anzi la storia si è ambientata da sé, essendoci alla base del film un avvenimento criminale vero) che mette in discussione il senso di una cultura, seguendo in questo anche le interrogazioni di altri grandi registi, dagli anni Cinquanta in avanti. Hanno, in definitiva, trovato una strada "adulta", che può riservarci grandi opere, mentre autori dello stesso "filone" provocatoriamente "po-· st", come Lynch, sembrano finiti (si spera provvisoriamente) in una irrazionalità insensata e fin nella parapsicologi a, o come Tarantino, che sembra bloccato nella sua possibilità di andar oltre dal trionfo di Pulp fiction, rischiano di scivolare nella barzelletta, ovviamente alla moda. Il percorso di Jarmush è stato diverso: marginale, da costa Est, legato alla tradizione del cinema indipendente e della letteratura beat, al tema degli sfrantumati in viaggio dentro l'America, e in bianco e nero, senza enfasi alcuna, con molta ironia e autoironia. Dopo Stranger by paradise, Daunbailò, Mystery train, con una larga distanza dall'ultimo film, anch'egli sembra affrontare una maturità fortemente cosciente, e abbandonare il girovagare spiritoso dei suoi outsider o dropout per un viaggio ben altrimenti impegnativo. Fedele al bianco e nero (una bellissima fotografia aspra e surrealista o iperrealista ma talora anche magica e sospesa, e talora lirica, nelle scene della natura, di Robby Muller, quello dei primi Wenders, dei film scontrosi e non dei film accomodanti e talora puttaneschi di Wenders), fedele al viaggio - ma ora decisamente nel territorio pochissimo esplorato di un West non solo allegorico (anche allegorico) ma intimo, che per la prima volta, mi pare, porta nel West quel senso dell'inner space che ha caratterizzato la "new wave" della fantascienza, la rivoluzione dentro quel genere operata tra gli altri dai Dick e dai Ballarci. Viaggio nell'anima e viaggio nella storia di una cultura, viaggio a ritroso, non alla scoperta di un territorio che si rivela un micidiale concentrato dell'orrore americano, ma - con qualche suggestione anche da America di Kafka, di cui Johnny Depp avrebbe potuto essere un perfetto interprete cinematografico - dentro la propria morte. Dopo il treno (scene figurativamente e ritmicamente tra le più belle del cinema contemporaneo, che culminano in un massacro di bisonti rigorosamente fuori dalla scena) e dopo la città (città incubo, con tutto l'obbrobrio del capitale e la veridica nudità delle fondazioni), il resto è movimento confuso dentro la wilderness, dentro il "selvaggio", che il protagonista plu ri-braccato affronta inseguito da killer di varia specie, assistito da un colto pellerossa grasso che vede in lui la reincarnazione di William Blake, il poeta più visionario di tutti. Il pellerossa "inizia" il nostro piccolo eroe ai misteri della natura e lo prepara a quello che più di tutti è oscuro, il mistero della morte; tanto più che non sembra esserci altra rinascita per lui, che è già, secondo l'indiano, un redivivo. Jarmush non rinuncia certo all'ironia, che è talora di grana grossa, quella degli umoristi della frontiera. Se non tutte le simbologie e non tutti i significati nsultano chiari, dipende anche dal fatto che Jarmush si avventura su un terreno impervio e p~ricoloso, e vi si muove con qualche incertezza. Ma non è questo che conta, mentre invece colpisce il rifiuto raramente così netto nel cinema sta tu nitense della civiltà statunitense stessa, ma anche, per estensione cristiana e occidentale. È una sorta di neopaganesimo quello che sostiene la visione del film, mutuato dal personaggio del nativo (che però ha avuto il suo bagno di civiltà inglese, e si dimostra in qualcosa sincretico), e peraltro al mondo degli alberi dell'acqua degli animali non possono fare a meno di riferirsi tutti i personaggi dell'inseguimento - tanto esso è lì "il mondo", avvolgente e dominante qualora si esca dalla "città". Con gli animali in partico1are molti dialogano, a essi molti si rivolgono - ma sono animali da loro uccisi, sono animali impagliati, sono spoglie morte. L'abbraccio tra William e il cucciolo ucciso è forse l'immagine più bella e più dolorosa, più patetica e insieme più irrimediabile, in tutto il "viaggio". Non c'è conciliazione possibile - come invece, per citare un libro recente e bellissimo, c'è in Alonso e i visionari di Anna Maria Ortese, dove Alonso è un piccolo puma e i visionari coloro che vedono le sue resurrezioni - tra paganesimo e cristianesimo, perché, in quell'Occidente, la civiltà cresciuta nel nome del secondo ha distrutto il primo ARTE E i'ARTE
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