trovare una propria lingua per parlare alla gente. "La prima questione che devi prendere in considerazione come artista è quella di parlare a coloro che sono diversi da te, non puoi parlare solo ai tuoi simili." (Cesar Brie) La Bolivi~ diventa it: qu~- sta prospettiva un terntono da fecondare e dal quale attingere il nutrimento per un teatro che lascia intravedere la proprie derivazioni 'terzo teatrante', ma non si plasma, né tanto meno aderisce ad alcuno schema, ad alcuno stile, che si esprime in una lingua teatrale che sfugge la nostalgia rétro e si libra nell'universo vagamente plumbeo del teatro con un~ leggerezza che albe'.ga ormai nella nostra memona. Ubu in Bolivia è uno dei quattro spettacoli che il Teatro del Los Andes rappresenta in Italia, Francia e Spagna, probabilmente quello che contraddistingue una fase artistica ed esperienziale del gruppo. È una grande fantasmagoria povera, una rutilante e scoppiettante macchina teatrale che vive della sapienza e della comunicativa dei suoi attori. La 'povertà' dello spettacolo contrasta con la ricchezza delle immagini, il più delle volte inattese e sorprendenti, mentre la volgarità e l'avidità di Ubu debordano come schiuma sugli spettatori, provocando ilarità e sgomento, il popolo depredato e impotente siede su di una terARTEEPARTE ra antica e senza tempo, protagonista soccombente dello scempio e dell'assassinio. E in poco tempo il teatro spesso così superfluo si trasforma in bisogno, prende corpo la necessità di essere spettatori, il desiderio di esserlo e di scambiare q~alcos~ coi: qu~I turbi_- nare d1 gesti, azioni, canti, volti. Gli spettatori dapprima assistono stupiti, poi si avvedono della loro adesione emotiva, smettono di essere voyeurs e si lasciano coinvolgere: ridono, si commuovono, accennano applausi a scena aperta, subito poi trattenuti, forse per non rompere un magico fluido narrativo. Ritrovano la propria identità di spettatori di fronte a un teatro svelato, finalmente essenziale che definitivamente tralascia l'estetica di certe forme vuote e riempie di forme cangianti contenuti che afpartengono alla storia de genere umano. Ubu in Bolivia è una riflessione sugli Ubu del mondo, l'irridente raffigurazione del volto grifagno del potere e del denaro, un calcio nel ventre molle di una spettacolarità presuntuosa e sprecona che perpetua il proprio rito stanco. L'ultima immagine dello spettacolo è una cartolina, un gruppo di famiglia nel quale i protagonisti, non più personaggi, uniti intonano malinconicamente una melodia popolare boliviana: "Continueremo a bere/ perché siamo al potere/ Ay, Bolivia/ Adesso sei nelle nostre mani/ Continueremo a rubare/ perché siamo al governo/ Ay, Bolivia/ Cosa fanno di te i tuoi figli?" Resta un indio seduto, ripiegato su se stesso che scandisce_il temp? con un campanaccio, quasi una campana a morto. Gli spettatori applaudono lungamente, quasi dovessero restituire agli attori l'energia che hanno attinto dai loro $esti, dai loro volti contratti 111 maschere grottesche, da un'ironia intelligente e non retorica, certi che, come recita il programma di sala "Ogni allusione a fatti reali è intenzionale". Cesar Brie e il Teatro de Los Andes in pochi anni di lavoro sono diventati un importante punto di riferimento per il mondo teatrale e culturale boliviano e latino-americano, ma soprattutto sono diventati necessari alla gente, anche a coloro che inizialmente, per impreparazione o ignoranza, li guardavano con diffidenza, hanno costruito una casa del teatro dove provano, abitano, coltivano, ospitano e organizzano spettacoli. Viaggiano per distanze enormi e fanno spettacolo di fronte a centinaia di persone che pagano pochi centesimi, quando li hanno, per entrare nei teatri o negli spazi autorgan iz z a ti. Pubblicano, da qualche tempo, una rivista semestrale di cultura teatrale El tonto del pueblo. Ubu in Bolivia è soltanto una tappa del progetto, come lo è Sandali nel tempo, pellegrinaggio attraverso i morti di una Bolivia ridotta a brandelli, affresco ardente e disperato, che debutterà in lingua italiana al prossimo festival di Sant'Arcangelo. Gli obiettivi ultimi sono lontani dalla nostra pratica quotidiana e forse per questo vicini a quel senso del teatro che anche noi stiamo cercando: "Portare il teatro dove c'è la gente, nelle università, piazze, quartieri, villaggi, luoghi di lavoro, comunità. Cercare un nuovo pubblico per il teatro e creare un nuovo teatro per questo pubblico. Attraverso il contatto, l'incontro, la mescolanza di razze, di culture, di usi ci muoviamo con la memoria aperta al passato e la mente proiettata in avanti" (Cesar Brie). ♦
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