La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 17/18 - lug.-ago. 1996

mente più belle, i canoni della bel~ezza v~ngono_sconvolti ed essi, questi umam, sono veramente belli perché in un certo senso liberati. Anche per questo le nostre rappresentazioni penso si veda come tutto sia oggettuale, privo di passioni, proprio perché tutto viene liberato dal senso, tutte le cose sono liberate da loro stesse. E l'Orestea si ritrae dall'Orestea. Ma allora perché partire da un testo? Perché un testo vi è ancora necessario, direi. Un testo per noi è immediatamente un problema, si pensa subito a come liberarsene, a come riuscire ad allontanarsi da esso, ad esempio nell'Orestea il testo derragliava in favore di Carro!! e deragliava ancora nelle ultime parole di Artaud, era quasi una rincorsa dalla scrittura scultorea di Eschilo, quasi spiorituale, a una scrittura della potenza materiale di Artaud, che parlava addirittura di potenza "anale", parole che nascondono con la loro gravità il loro corpo, quasi demoniache, che appartengono a un corpo e loro stesse sono corpo ... Ecco perché le parole venivano sottoposte a un trattamento quasi fisico attraverso strumenti anche fisici, tutto ha una gravità. Invece nella favola di tutto questo non c'è bisogno, c'è una interpretazione quasi classica, ricca di sfumature psicologiche, forse lon_tanissime in_apparenza da 1101, ma non nspetto a uno sguardo infantile. Caratterizza Pelle d'asino l'idea della grotta, di un antro dove si cade dentro, fuori dalle compromissioni della società. E ci sono gli animali come catarsi. E ci sono le distanze, la profondità di campo, cui tu nelle tue regie sembri tenere sempre di più: lunghe prospettive complesse, con lo spettatore, nella visione di Pelle d'asino che date nella scuola non più usata di Cesena, che entra anche lui nell'antro, e vede "da dentro". Parliamo un po' anche di tecnica della regia? Gli ultimi spettacoli sono percepiti come delle macchine: l'Orestea con l'uso della tecnologia usata in rapporto alla scena, un modo di organizzare l'interiorità dell'attore quasi stanislavskiano, che fa riferimento a una macchina-organismo che ha vita ARTE E PARTE propria. Lo spettacolo stesso è un animale che ha un respiro suo e un suo tempo, una cosa che( tu stai a guardare senza essere coinvolto. Oltre lo sguardo, nel suo ragionamento, nel suo tempo, c'è una visione morbosa, come se si trattasse (per lo spettatore) di rubare immagini stando a guardare lo spettacolo (soprattutto in Orestea). Si sfruttava la profondità di piani in modi diversi, con una consequenzialità, e alla fine tutto era visto attraverso un buco, una vetrina dove ci sono immagini fiabesche (le scimmieEu menid i, Oreste eccetera). L'apertura di campo in questo caso aveva anche una funzione di liberazione; le prime figure, le più terrificanti, sono quasi a ridosso dello spettatore, e poi invece c'è questo sfondamento prospettico, che dà l'idea della fuga. Attraverso una tecnica abbastanza simile abbiamo costruito due spettacoli anche se diversi: un sistema chiuso e autosufficiente l'Orestea; mentre l'altro è tutto teso e rivolto allo sguardo coinvolto del pubblico dei bambini. C'è sempre tecnicamente l'idea di "macchina" Tu hai diretto, coinvolgendo il gruppo, un film di mezz'ora assai bello, e in molte cose simile ai tuoi spettacoli, e anche alla loro "macchina", Brentano? È un mediometraggio (35 minuti, girato in 35 mm.) tratto da una breve prosa di Robert Walser. Non è una storia, si apre che tutto è già finito, è una fine : una scelta di rinuncia. Brentano, il protagonista, è il ritratto della malinconia più dura. Il film è fatto di scene di rinuncia, at- . . . . traverso una tens10ne 111s1gmficante delle cose microscopiche del quotidiano. C'è una visione da baratro, da caverna, Brentano si vede attraverso lo specchio e c'è la storia del suo sguardo. Anche qui c'è il senso del precipizio. È difficile spiegare le poche cose di cui è fatto il film, le sue tecniche di rinuncia: al colore, negli attori, nel sonoro. Volevo organizzare il quadro anche nei minimi particolari, anche avendo rinunciato a tutto. Fontlamentale è stata la fotografia. Un 'esperienza molto diversa dal teatro? L'effetto è sempre quello dell'azione come effetto finale. È stato molto strano per noi organizzare queste figure come umidificandole sullo schermo. Forse ripeteremo questa esperienza, è stato bello, "girando" si avverte una sensazione di incredibile potenza. È un attimo in cui si gioca una vera battaglia. Della comun icazione non vi sembra che vi preoccupiate più che' tanto. Il vostro radicalismo è però privo di compiacimento della sconfitta, dello stare appartatti, è un radicalismo di battaglia non di sconfitta. Attraverso il viaggio, nella morte, esaltate la vita, un 'idea di rinascita. Le figure estreme inducono ad adottare certe scelte in modo quasi involontario, spontaneo. A noi accade di essere radicali perché cavalchiamo queste figure. Quella della moderazione è un a tecnica che abbiamo abbandonato, che non·usiamo, se c'è una cosa forte la si fa come va fatta, è una scelta non economica, ma mai calcolata; è gratuita e può creare dei problemi, da 4 o 5 anni in qua non c'è spettacolo che non crei problemi o di morale o di censura o di denunce: sempre. Anche con Pelle d'asino abbiamo avuto atti di censura. Non è una cosa che noi cerchiamo o vogliamo, semplicemente ci capita. Viene anche dalla scelta di non affidarsi a un testo, che ci porta a non usare la moderazione. La crudeltà di Artaud è la voglia di andare a fondo nelle cose, è la crudeltà della lucidità... È questa la cosa più facile per noi. È un lavoro di discesa, una inerzia un po' ... idiota. Queste figure ci attraggono, gli animali sono loro che ci chiamano, c'è un rovesciamento di prospettiva e di intento. Noi non facciamo un teatro pedagogico per bambini. Anche qui c'è un rovesciamento: siamo noi che andiamo verso i loro fantasmi, le loro figure che sono di assoluta potenza ed efficacia in termini scenici, teatrali. Pura comunicazione senza moderazione, la nostra polemica nasce dalla tragedia, che è la prima moderazione che l'autore fa sulle sue figure. ♦

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