PIANETA TERRA Israele, un paese diviso. La vittoria di Netaniahu Neliana Tersigni Neliana Tersigni è giornalista nella redazione esteri del TgJ, spesso inviata in Israele. ♦ Bitakhon - sicurezza, in ebraico - è stata la parola d'ordine, quella più pronunciata nel corso della campagna elettorale forse più drammatica della storia d'Israele. La mattina del 30 maggio, quando il risultato era ormai chiaro a tutti, abbiamo assistito a una divisione fisica del paese: una metà festeggiava rumorosamente la vittoria di quello che, per l'altra metà, era la sconfitta di un processo di pace costato l'ombra di un integralismo religioso che, sia dalla parte ebraica, sia da quella islamica, aveva influenzato pesantemente la battaglia elettorale. Drammatici avvenimenti avevano segnato - continui colpi di scena - i mesi che l'avevano preceduta: dall'assassinio di Ytzahak Rabin, un parricidio più che un regicidio, perché compiuto per mano di un ebreo e non di un nemico di sempre; a quelle tre bomb~ che, in due settimane, dalla prima, il 25 febbraio, all'ultima, il 4 marzo, avevano coperto di sangue il paese; alla guerra, voluta da Shimon Peres come azione di rappresaglia contro i lanci di razzi kauusha degli hezbollah sulla Galilea, e divenuta vera guerra con la strage, nella base Onu di Cana, di oltre cento civili libanesi. Shimon Peres, architetto di un processo di pace che fino al novembre scorso era stato accettato, dalla maggioranza degli israeliani, soprattutto per il carisma e il senso di sicurezza militare garantito dal primo ministro ed ex generale Rabin, aveva un'eredità apparentemente vincente. Tante erano state le accuse contro la destra, dopo l'uccisione di Rabin. Tante le prove di un'ondata crescente di fanatismo, che nulla aveva a che vedere con la bitakhon, la sicurezza. Un fanatismo che si rivolgeva ancora alla visione di quel!' eretz Israel, il grande Israele, i cui confini venivano se~nati dalla Bibbia al di là del Giordano. Gli accordi di Oslo - per una mrnoranza capace, come Yigal Amir, anche di uccidere - rappresentavano (e rappresentano) il tradimento. Le coscienze della maggioranza del paese, anche dei religiosi moderati, vissero allora un trauma storico. E furono con Peres e la sua pace. La morte di Rabin era però stato un trauma anche per l'altro popolo che abita quella terra travagliata. I pales ti n es i che uscivano, con prezzi altissimi da 28 anni di occupazione videro nell'assassinio di Rabin da una parte la perdita dell'uomo che garantiva l'obbedienza dell'esercito nel perseguimento degli Accordi di Oslo; dall'altra, con turbamento, una mediorientalizzazione d'Israele: anche quei nemici, perfetti nella gestione del loro stato, potevano uccidersi fra di loro. Ma la nuova a-utonomia, gestita faticosamente dall'autorità palestinese, viveva (evive) divisioni e crescenti fanatismi che nella religione trovavano (e trovano) l'alibi per una guerra le cui radici storiche più che nell'odio, sono nella miseria, nell'umiliazione, nella frustrazione. Hamas, entusiasmo in arabo, è un movimento nato negli anni più cupi dell'occupazione, quando anche l'esercito occupante riteneva meno pericolose le riunioni in moschea delle cellule politiche dell'organizzazione per la liberazioine della Palestina. Ma Hamas, diventato lotta armata, o più precisamente lotta terroristica, era ora in lotta anche contro Arafat, colpevole, con gli accordi di Oslo, di avere svenduto la fede per il compromesso. Le tre bombe di Gerusalemme e di Tel Aviv segnarono in qualche modo, se non la fine immediata del processo di pace, la fine del consenso di massa per Peres. E riportarono in ogni casa israeliana, in ogni discorso, la parola bitakhon come la prima necessità da garantire. Inutili gli sforzi del vecchio leader laburista nel mostrarsi in giubbotto militare; inutile forse anche la penalizzazione collettiva di quasi due milioni di palestinesi, segregati in territori senza infrastrutture sociali e industriali, privati del reddito fondamentale dal lavoro in Israele. La guerra contro gli hezbollah, a marzo, è stata l'ultima carta giocata da Peres. Ma una carta che si è rivelata, dopo la strage di Cana, un culde-sac, da cui è stato possibile uscire solo con l'estenuante mediazione americana. A questo punto Benjamin Netamahu, per tutti Bibi, il ragazzo d'oro del Likud, la formazione di destra antagonista del partito laburista, poteva con facilità risalire la china dei rovinosi sondaggi preelettorali. Soprattutto perché, per la prima volta, gli israeliani erano chiamati non solo a votare un partito, ma anche, direttamente, per il primo ministro. E il primo ministro doveva significare sicurezza. Ma se gli slogan dei due uomini erano apparentemente gli stessi - "sicurezza nella pace", per Peres e "pace nella sicurezza" per Netaniahu - il messaggio che inviavano era però profondamente diverso: solo nella pace c'è sicurezza, per il primo; solo nella sicurezza c'è la pace, per il secondo. Scomparsi di fatto i temi di sempre: economia, pensioni, tasse, servizi sociali. Va detto che il paese, con il governo laburista, ma soprattutto dopo gli accordi di Oslo, ha vissuto e sta vivendo una fioritura che ha visto un incremento del quaranta per cento nell'economia nazionale. La campagna elettorale fra i due leader - il sognatore settantaduenne, cresciuto nel sionismo utopico e socialista di Ben Gurion e Golda Meir e il quarantaseienne allevato nel pragmatismo, universitario in America, fratello di un eroe e fama di donnaiolo - è stata dura e senza remissioni di colpi. Intorno a loro, un paese diviso a metà, terrorizzato per ragioni opposte dalla vittoria dell'uno o dell'altro.
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