La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 16 - giugno 1996

mente biopolitici. Un destino biopolitico esiste quindi già, e quel che accade·non è che l'emer$ere di una frattura che però è presente sin dall'mizio. Il concetto di biopolitica è dunque più ampio dei diversi fattori, scientifici o mitologici: essi sono semmai all'interno di un carattere strettamente politico. La figura che tu hai posto al centro del tuo lavoro, !'"homo sacer", rappresenta un caso limite, una figura dell'eccezione. Ma c'è anche un altro "homo sacer": penso a Genesi 4, 1315, dove Caino è cacciato,ma viene posto il divieto della sua uccisione. Perché non questo "homo sacer"? Certo, si tratta anche in questo caso, come in quello che proponi tu, di un presupposto mitico dell'occidente cristiano largamente disatteso, e che non so in quale forma del diritto potrebbe entrare. Ma esso definisce una fondamentale ambivalenza del sacro, che tu invece in qualche modo hai negato. E per legare la sacertà dell"'homo sacer" alla sacralità della vita, mi sembra che tu abbia dovuto compiere un 'operazione molto forte e molto problematica, sia nel risultato che negli effetti. Ti rivolgi nel libro a questa ambiguità dé! sacro come a una scoperta del mondo borghese, nel momento in cui esso si trova sprovvisto di una vera esperienza della divinità, e spieghi come tutti coloro che si appellano alla sacralità positiva della vita (per cui la vita è degna di riverenza, cosa di Dio, e non può essereviolata), affermano in realtà la sacertà dell"'homo sacer", che comporta che la vita venga consegnata alla distruzione. In questo modo tu cancelli una grossafetta di pensiero e di esperienza che invece continua ad affermare la duplicità del sacro, duplicità originaria di cui anche l'ebraismo parla parlando della doppia facoltà con cui Dio crea il mondo (non solo con il rigore, ma "con il rigore e la misericordia"). A partire di qui gli interpreti ebrei, anche Rosenzweig, traducono la duplicità del nome di Dio, e il modo di essere di fronte a Dio. L 'operazione che tu fai, invece, riduce il teologico e il sacro a una struttura di teologia politica che però impoverisce, non esaurisceil sacro. È importante precisare che nel mio libro ci sono delle tesi che, se prese come tesi storiografiche, sarebbero assolutamente false. Una ad esempio è quella che intende dimostrare l'intima solidarietà tra la tradizione democratica e quella assolutistica. Questa è certo assolutamente falsa da un punto di vista storiografico, perché le due tradizioni sono state negli ultimi secoli radicalmente antagoniste. Il mio non è un orizzonte storiografico, ma al contrario filosofico-politico. Ho voluto perciò mostrare che per capire certi fenomeni politici che abbiamo ora davanti agli occhi, dobbiamo farlo tenendo conto che la lotta della democrazia per la liberazione si è fatta curiosamente sullo stesso terreno (la vita, il corpo) che era quello dell'asservimento. La tesi può sembrare storiografica, ma è solo filosofica. La stessa cosa potrebbe valere per la polemica che io faccio contro la teoria dell'ambiguità del sacro, e la rivendicazione del significato originario del termine "sacer" come legato invece a una sfera del diritto romano arcaico. Il concetto di "homo sacer" gioca un ruolo fondamentale in questa teoria dell'ambiguità: non si tratta di un concetto religioso, ma di un dato giuridicopolitico. Non intendevo comunque escludere ogni idea della sacertà della vita, ma certo vedo IDEE un pericolo nel vedere la vita come "cosmicamente impenetrabile" e come tale separata, perché là iVedol'uccidibilità della vita, l'aspetto tanato-politico che ne legittima il sacrificio (ne prendo cura e nello stesso tempo ne autorizzo l'olocausto). Ridurre la vita umana all'ineffabile e l'indicibile può voler dire anche - farlo per esagerazione - arrivare al nazismo (i sangue). Il lavoro che sto facendo ora, per la seconda parte del libro, è di "teo-zoologia", una teologia che non ha altro referente ultimo se non la pura vita. Quando tu parli di "violenza sovrana", di emergenza, viene in mente come modello primario non quello che tu proponi del diritto romano arcaico, ma piuttosto il monoteismo biblico, uno schema certamente volontaristico. Se la metti in termini secolari, hai la teologia politica di Cari Schmitt; ma anche l'anarchia, Bakunin, propongono una visione positiva del volontarismo biblico. La legge è autoritaria, è la stessa legge che c'è, non scritta, nell'Antigone, ed è la sapienza che nel Deuteronomio i popoli ammirano. Questa volontà e potenza di Dio non è altro che l'etica (i comandamenti). Si tratta allora di vedere nella dimensione della violenza sovrana uno stravolgimento di quella volitiva-dispotica divina (che in questo caso diventa forma pura). Inoltre, tu parli di una teoria politica sottratta alle aporie della sovranità, e della necessità di pensare l'ontologia e la politica al di là di ogni figura della relazione. In questo senso citi autori come ]ean-Luc Nancy o Alain Badiou, ma anche Lévinas, dei quali è caratteristico l'impegno nel tentativo di pensare - in vista di un agire, di una pratica - la nozione di comunità in una forma che esca dalle aporie (non solo teoriche, ma anche politiche e pratiche) del pensiero ottocentesco-novecentesco. Ti muovi anche tu in questa direzione, quella di cercare di elaborare un pensiero che conduca a un 'uscita da queste aporie, e di realizzare quindi una nozione di comunità che esca da questo gioco oppressivo del tutto sulla parte? Sì, c'è questa prospettiva, e non solo, anche una prospettiva in qualche modo precedente a questa ricerca, il pensare una comunità sen~a condizioni di appartenenza, basata su generiche singolarità libere, prive di predicati che le definiscano (ebreo, musulmano, rosso). Più specificatamente, mi è parso all'inizio del mio lavoro un compito importante non solo trovare una logica della singolarità rispetto alla logica del tutto, ma anche operare una critica del diritto, di una dimensione giuridico-politica su cui si fonda la teoria della sovranità. Ho tenuto conto delle suggestioni di Benjamin nel saggio Per la critica della violenza. La sovranità mi pareva essere il luogo in cui il potere si esercita escludendo un corpo, la nuda vita, che è il referente principale dell'ordinamento giuridico. Tutti questi concetti giuridico-politici fondamentali mi sono sembrati basati sulla logica dell'esclusione, ma un'esclusione che è nello stesso tempo una inclusione. Ciò che è escluso, l'eccezione, non è senza rapporti con la norma, ma la norma si applica all'eccezione disapplicandosi. La logica dell'eccezione mi pare adesso quasi più importante della logica della singolarità, per pensare in modo diverso le categorie della politica: nella fase che attraversiamo, lo stato di eccezione, con tutte le sue implicazioni, mi pare la vera struttura giuridi-

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