IL TERZO SETTORE DEI PROFESSORI DI MARXISMO Vittorio Giacopini Negli anni Trenta, Orwell scrisse una frase che vale da sola molti trattati di teoria politica: "ogni opinione rivoluzionaria attinge parte della sua forza alla segreta convinzione che nulla può essere cambiato". Sembra che il tempo non sia mai passato. Sessant'anni dopo, le minuziose querelles degli "intellettual i di sinistra" tradiscono ancora troppo spesso l'inconfondibile marchio di fabbrica dell'ideologia. Il culto della Storia e del fatto compiuto, il mito o l'ossessione della strategia, un cinico, ricattatorio, realismo politico, una stupefacente arroganza mentale. Il dibattito attuale sul non-profit e sul "terzo settore" è anche un'occasione per verificare questa singolare paralisi nell'ideologia. La confusione e la disonestà di molti discorsi "rivoluzionari"; l'irritante vaghezza di un modello troppo scontato di critica sociale. Un buon esempio di questa situazione, viene dalla traduzione del libro di Alain Bihr, Dall"'assalto al cielo" all'"alternativa ". La crisi del movimento operaio europeo, edito dalla Biblioteca Franco Serantini di Pisa, e dalla sua ricezione sulla nostra stampa (su un giornale schierato: "il manifesto"; su una rivista che non si schiera . "L'' d' ") mai: m ice . Basta sfogliarlo e si vede subito. Il libro di Bihr è un oggetto curioso, un libro strano. Dall'assalto al cielo non è un saggio sul "terzo settore". Nelle tre, lun~he, parti del suo lavoro, Bihr analizza "la cnsi del movimento operaio europeo": il consolidarsi, la stasi, il superamento del vecchio compromesso socialdemocratico; le "sfide" e i paradossi del presente; infine i primi elementi di un'alternativa capace di determinare - tramite una "riappropriazione immediata delle condizioni sociali di vita all'interno delle società capitalistiche" - l'avvento di "una società comunista" (132). Marxista anomalo, con venature anarchiche, consiliari, individualiste, Bihr nella "conclusione" della sua ricerca riesuma infatti un vecchio, caro, fantasma di famiglia: !"'attualità del progetto comunista". Sono solo otto pagine, ma non manca nulla. Come nei testi sacri, tutto andrà per il meglio (e il meglio è noto): il "movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti" ci porterà fuori dalla nostra preistoria piena di muffa. Avremo il paradiso in terra. La fine dell'economico, del politico, delle clas~i, delle ideologie; l'istituzione di una "comunità umana universale", l'avvento di "una storia realmente umana", ecc. ecc. Si vede subito; si capisce subito. Se c'è una morale, la morale è chiara. Quando un marxista polemizza con i RICCHIEPOVERI teorici della Fine della Storia lo fa evidentemente a ragion veduta. La fine della storia la decide lui. "Solo una politica che si proponga esplicitamente il superamento del capitalismo può ottenere riforme radicali" (p. 220); "Non è più il socialismo ... ma direttamente il comunismo la questione ali' ordine del giorno per il movimento operaio" (p. 231). Deprimente. Nonostante molti proclami, molte sciocchezze, molte illusioni di questa natura, il saggio di Bihr ha tuttavia uno "strano" pregio. Dall"assalto al cielo è (fortunatamente) un libro schizofrenico. L'ingombrante impalcatura marxista, la filosofia della storia, l'irritante diatriba sulla strategia, ingabbiano diversi spunti teorici piuttosto interessanti, delle trovate ragionevoli, delle idee importanti. Per chi non è assilato dalle sirene della rivoluzione, dal senso della storia o dall'ideologia, la lettura de Dall'assalto al cielo può rivelarsi un'esperienza utile. Bihr, ad esempio, individua molto limpidamente alcuni limiti tradizionali delle politiche del movimento operaio e della sinistra. Quando parla della possibilità di immaginare nuove forme di "lotta dentro e fuori i luo&hi di lavoro" (p. 132), Bihr sottolinea la necessità di liberarsi di due degli idoli più persistenti del movimento operaio (e del marxismo): l'economicismo e lo statalismo. In linea teorica, forse l'aspetto più interessante della sua ricerca sta proprio in questo rifiuto, e nella componenete anarchica della sua posizione. I richiami ai modelli di self-help, le proposte - parziali, specifiche, locali - di "riorientamento della produzione sociale" (piani alternativi di produzione dei lavoratori - rifiuto di produzioni nocive o inquinanti o inutili, ecc. -, schemi di democrazia economica autogestionaria, volontariato e "terzo settore"), il tentativo di criticare l'obbligatoria, uniforme, oppressiva coerenza del presente cercando di immaginare una specie di "democrazia della vita quotidiana", presuppongono un imperativo molto sensato, molto ragionevole. Dovremmo "imparare a fare a meno dello Stato .... e prenderci cura delle proprie faccende a tutti i livelli e in tutti i settori dell'attività sociale" (p. 186): puro buon senso. Analogamente, i complessi ragionamenti di Bihr sulla decisività di una strategia attiva di contropoteri non preludono semplicemente a un'improbabile salto "rivoluzionario" (o al "Grande Rifiuto" di Marcuse). Nel presente, la capacità di inventare e istituire "gruppi, organizzazioni, istituzioni" in grado "di fare dissidenza o secessione nella società" (p. 181), possono di fatto determinare una riduzione del carico di dominio, dello squilibrio e del dislivello di potere, dell'ineguaglianza che infettano la nostra società. Idee sensate, proposte utili, piccoli sforzi di immaginazione. Domanda scontata: possono bastare? Credo che il nodo vero del problema sia diverso. Nella sua clamorosa, inconsapevole, schizofrenia, il saggio di Bihr propone m realtà un altro dilemma. Cosa significa, "alternativa"? Cosa vuol dire, oggi, "criticare" la società? Prendiamo il caso (in senso ampio) del "terzo settore". Ho l'impressione che per molti intellettuali, per molti "critici" radicali della società questa (preziosa) esperienza di socialità, questo modello di "secessione" attiva, sia all'incirca soltanto una metafora, un pretesto (politico e tattico), un'anticipazione "dialetticamente" sperimentale di un obbietti-
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