te allo strapotere del sistema dei partiti. Anche la scoperta dell'empowerment (cioè l'assunzione di poteri concreti) come alternativa a queste forme di partecipazione astratta si è scontrata con tale resistenza di fronte alla possibilità che organizzazioni o forme democratiche della società civile acquisissero reali strumenti di controllo e di partecipazione: diritti e doveri di una rappresentanza sociale e politica distinta da quella dei partiti. Il vizio era/è già nel nostro dettato costituzionale quando riconosce (art. 49) solo ai partiti, e non ad altri soggetti di rappresentanza sociale e politica, la facoltà "di concorrere a determipare la politica nazionale". Lo scontro è con il potere della rappresentanza politica che ha fagocitato nei tre decenni passati in un solo colpo la società (i movimenti) e le istituzioni (srazie al consociativismo). Chi non voleva farsi fagocitare o ha continuato a fare un serio lavoro di minoranza attiva, oppure si è fatto "politica": è questa la triste storia dei partitini ultraminoritari postsessantottini e quella più recente dei Verdi. Il terzo settore è una novità: scalza non solo la tradizione consociativa, ma anche quella specifica "dorotea" (molto trasversale, oltre la tradizione democristiana) dell'uso r,rivatistico della cosa pubblica (essenziale per 11 consenso negli anni settanta e ottanta) e quella socialdemocratico-leninista del primato dello stato. Entrambe le tradizioni della sinistra (non certo quella anarchica, ma nemmeno tanto quella originaria marxista) hanno assegnato allo stato un ruolo salvifico, luogo delle garanzie e delle mediazioni sociali a tutto vantaggio dei più deboli, leva per il cambiamento. Ha ragione Revelli: questa è una tradizione hegeliana (lo Stato etico), più che marxista (che l'aria va appunto di soggetti sociali emancipati che potevano diventare espressione universalistica), né tanto meno anarchica. La sinistra "storica" ha sempre sussunto tutto il sociale nello statale. Il "compromesso sociale" del welfare, oltre agarantire economicamente le classi subalterne e a redistribuire in modo più egualitario il reddito, ha fatto morire o istituzionalizzare (dentro la logica del compromesso dello stato assistenziale) le originali e rivoluzionarie esperienze dal basso del movimento operaio e contadino della fine ottocento e del primo novecento: cooperazione e mutualismo, auto organizzazione economica informale e auto aiuto. Quello era il terzo settore di fine e inizio. secolo. Il terzo settore di oggi può non solo riformare il sistema del welfare, ma scardinare il vizio statalista e rispondere alla necessità di riformare la partecipazione e la politica, partendo dai bisogni reali. Le preoccupazioni di alcuni esponenti della vecchia-nuova sinistra (Rossanda, Burgio, ecc.) che il terzo settore sia una sorta di cavallo di troia per la privatizzazione (pure non- profit) e la mercatizzazione dei diritti sociali - strumento di un capitalismo riformato - è espressione di una desueta idolatria statalista. Il terzo settore può invece rappresentare una leva importante per innovare le politiche sociali in senso comunotario. Anche qui a condizione di non esserne la stampella , di non barattare benefici fiscali per una autosterilizzazione politica, mantenendo viva la tensione di un'economia e di una partecipazione sociale dal basso, critica, comunitaria, che sappia collaborare in modo positivo e non dipendere come puro strumento esecutivo dalle istituzioni pubbliche. 3) C'è un terzo settore "buono", uno "cattivo", un altro "insipido". Quello "buono" è rappresentato oltre che dalla generalità delle organizzazioni del "Forum del terzo settore", da tutta una rete di associazioni e da gruppi di v1a>lontariatosociale locale radicati nel territorio che hanno un propria progettualità, un impianto etico molto forte e legittimati da un rapporto molto stretto con i cittadini. Ci sono alcuni settori dell'associazionismo interamente dipendente e assistito dal settore pubblico e dalle sue prebende, che non esprimono invece alcun valore di autogestione (o anche solo di cogestione) e di autonomia. Il terzo settore "cattivo" è il non-profit che si autoreclama tale per fare invece il profit o per fini sociali di esclusione, di egoismo, di privilegio. Le ronde notturne, i bar non-profit per soci finti, le associazioni di categorie professionali (una sorta di auto-aiuto corl'orativo) sono tra queste. Il terzo settore "insipido" è quello che piace di più ai media del cuore: associazioni - certo meritorie, ma non sempre trasparenti e politicamente asettiche - di ricerca su malattie e simili. Non a caso queste (Lega del filo d'oro, Telefono azzurro, Associazione per la ricerca sul cancro, ecc.) hanno fondato il "Summit della solidarietà" in contrapposizione al "Forum del terzo settore" considerato troppo di sinistra e politico. Rimane comunque un limite di fondo. Il terzo settore è ancora prigioniero di una logica specialistica: chi ne vede solo gli aseetti sociolosici, chi solo quelli economici, eh, quelli politici, chi quelli valoriali, ecc. Pochi cercano di integrarne i diversi elementi, di analizzare la portata politico-culturale, di movimento che esprime un pezzo di società che non delegando più a partiti e istituzioni la rivendicazione di diritti, vuole farsi dovere di solidarietà, politica ed economia, socialità e cultura, in un processo non schizzofre.nico, ma armonico, con spirito comunitario e non competitivo. La ricchezza del terzo settore è proprio questa: se i suoi stati maggiori lo portassero invece a farsi ceto del nuovo stato sociale o isola di un'economia assistita e benevolmente aiutata farebbero un grande errore di prospettiva. Il terzo settore può, di fronte alla vecchia idolatria statalista e al perdurante innamoramento del mercato così com'è da parte della sinistra, rappresentare una strada diversa, quella di un'alternativa all'attuale "pensiero unico" della politica e dello sviluppo economico: affermando una pratica della socialità, del,la territorialità, della dimensione etica dello sviluppo umano che confligge con un'organizzazione economica e istituzionale che gira sempre di più sul vuoto di formule e ricette non sono ingiuste ma sempre di più implacabili e senza futuro. Per percorrerla, questa strada, serve il coraggio di una nuova identità costruita dal basso e realmente autonoma. ♦ RICCHI E POVERI
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