OLTRE LO STATO: LA NOVITA' DEL TERZO SETTORE Giulio M arcon 1) Del terzo settore si occupano oggi in molti. Anche il profit è molto interessato al non-pro{it. Il "Sole 24 ore", megafono della Confindustria, vi ha dedicato innumerevoli articoli e approfondimenti. E l'organizzazione degli imprenditori in alcune re~ioni ha già creato le sue associazioni non-projit. La Banca di Roma è la mecenate/padrona della Fivol (Fondazione italiana per il volontariato). Si aprono nuovi mercati e investimenti: finanza e fondi di investimento, fondazioni bancarie e quant'altro. Il non-profit in Italia arriva in ritardo sulla tradizione anglosassone che sull'onda di una matrice religiosa (puritana o evangelica) e culturale (filantropica e apolitica) ha incluso anche al suo interno istituzioni, come ospedali e università, che in Italia sono pubbliche e in misura minore private. La scoperta improvvisa e accelerata del non-profit include anche molti altri soggetti: dal sindacato al mondo della cooperazione, dagli enti locali ai media del cuore, dai governi alle chiese. Alcuni con buone intenzioni, altri meno. Novità e ritardo convivono, come intuizioni e vaghezza nell'esame della dimensione di questo fenomeno. Proviamo a sistemizzare tre coordinate. C'è una crisi del modello fordista dell'economia. La fabbrica che si fa società è ormai di fatto in via di superamento a favore della fabbrica integrata sul modello giapponese. L'informazione e la rapidità dell'innovazione tecnologica degli apparati e del sistema industriale conducono a una ristrutturazione che espelle la forza lavoro, non assorbita da altri settori. Il settore della "conoscenza" (informatica, comunicazioni, ecc.) non sembra offrire possibilità di assorbimento di forza-lavoro pari alle espulsioni dagli altri settori tradizionali. L'attuale fase postfordista mette in crisi i meccanismi di funzionamento dell'economia di mercato così come l'abbiamo conosciuta: i sistemi nazionali di regolazione, le produzioni di massa, il rovesciamento della dipendenza consumo-produzione (è ormai il primo a condizionare la seconda), la consistenza sempre minore dell'operaio-massa (generico, de~ualificato, ecc.), la superata necessità {)er gli imprenditori di ammortizzatori sociali (ovvero il sistema del welfare) e la desiderabilità dell'intervento pubblico. Dall'economia nazionak! o multinazionale si passa all'economia-mondo, dalla territorializzazione alla delocalizzazione della produzione, dal taylorismo (che presupponeva un'organizzazione e divisione rigida di tempi e funzioni) al toyotismo (che ha come correlati il just in time, la mobilità e la qualità RICCHIEPOVERI totale che agli operai chiede non solo il culo, ma anche l'anima, non solo l'asservimento fisico, ma anche quello spirituale), dalla ricchezza materiale dei beni prodotti a quella astratta della finanziarizzazione che da Tokyo a Wall Street, passando per la City muove 24 ore su 24 capitali immensi e incontrollabili. In realtà la rivoluzione postfordista ha le gambe corte: i suoi limiti sono ambientali (le risorse), sociali (i costi mani alla lunga insostenibili) geografici (i disequilibri regionali) e anche istituzionali (l'inesistenza di una regolazione di rapporti e relazioni, venendo meno il ruolo dello Stato nazionale e non avendo sufficienti poteri gli organismi internazionali). Alla fine potrebbe reggersi solo sulla forza e la coercizione. Sulla forza militare dei più forti. Può essere l' economia sociale, non-profit, una via d'uscita? Larisposta è positiva, ma segnalando una possibile ambivalenza: il terzo settore può essere un nuovo ammortizzare sociale o la costruzione di un'economia autogestionaria, dal basso, critica e conflittuale. Ricordiamoci cosa fu lo stato sociale per il movimento operaio: una conquista economica, ma anche la sua sterilizzazione politica. Se Beveridge fu l'inventore del welfare, Bismarck lo anticipò, più di cinquant'anni prima, all'insegna del paternalismo e del controllo del conflitto sociale. Si ricordi anche: negli ultimi anni i primi presidenti americani a enfatizzare la gloria americana della generosità sociale del non-profit sono stati Reagan e Bush. Naturalmente per risolvere così il problema - in modo elemosiniereo - dei poveri e tagliare ancora le spese sociali. Ma il terzo settore può essere anche la scommessa di una strada diversa di innovazione sociale ed economica sulla base di un principio egualitario e partecipativo. Sulla quale bisogna puntare. Ad alcune condizioni. Che non accetti di essere dell'economia di mercato la ricreazione do.Po la scontata accettazione del modello postfordista; una sorta di ghetto tollerato dai nuovi dominatori della finanza e dell'economia. Ma$ari accettando un compromesso: meno ore d1 lavoro - pure lavorate in modo infame - per l'economia toyotista, per avere più tempo libero nel quale ricostruire anima e corpo. Il terzo settore deve ribaltare questa logica duale: i tempi sociali e di vita di un'economia autogestionaria confliggono con il modello postfordista, con la qualità totale, con l'illimitatezza dello sviluppo. Un terzo settore "umanitario" non esiste oppure è solamente residuale e naturalmente tollerato. 2) L'altro corno che interessa lo sviluppo del terzo settore è la crisi della partecipazione politica e sociale di questi ultimi decenni. Quella "tutta politica" degli anni settanta è naufragata dietro illusioni e magqni sfociati in tanti ngagnoli tra loro opposti: terrorismo e buonismo, primato delle regole e trasformismo. Quello che di buono aveva lasciato il '68 - la "lunga marcia dentro le istituzioni" - è stata la zattera dei migliori che senza strategie salvifiche h3: risposto alla richiesta di diritti, con l'offerta di una cosa semplice: il "dovere sociale" di fare bene il proprio lavoro senza sog$iacere ai grandi vizi italici, primi tra tutti famt!ismo e opportunismo. I meccanismi partecipativi degli anni settanta non funzionavano: d~c~eti_delegati ~ c~rnsigli ~i quartiere, ci~- coscnz1oni e altre 1st1tuz10111decentrate nspondevano ad una logica subordinata di fron-
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