NON-PROFIT: RUOTA DI SCORTA O NUOVO MOTORE PER UN ALTRO SVILUPPO? Antonio Perna Gli approcci al terzo settore: le strade della inclusione/omologazione. Le organizzazioni non-profit sono al centro di un vasto interesse da molti anni. In particolare negli States, dalla prima metà degli anni Ottanta, c'è un fiorire di studi, soprattutto in campo economico 1 , che tende sia a quantificare il fenomeno sia, e soprattutto, ad inserirlo nella classica analisi economica costi-benefici. L'idea di fondo è quella che le organizzazioni non-profit siano più efficienti quando siamo di fronte alla produzione di beni meritori (curiosa definizione di alcuni beni di pubblica utilità) in mercati imperfetti. In tali mercati, caratterizzati da una ·asimmetria informativa, le Onp (Organizzazioni Non Profit) sarebbero più efficienti, rispetto ali' obiettivo paretiano di soddisfazione del maggior numero di utenti a parità di risorse, rispetto sia alle aziende profit (che hanno tutto l'interesse a lucrare sull'ignoranza dei consumatori), sia all'apparato statale che non ha flessibilità e presenta, in generale, una rigidità di costi indif end ente dalla qualità e quantità dell'offerta. I corollario di questo ragionamento è il seguente: le organizzazioni non-profit hanno un senso solo là dove il mercato non riesce a funzionare come allocatore ottimale di risorse scarse. Le implicazioni politiche sono immediate: che si smantelli pure lo Stato sociale, inefficiente e parassitario, dando alle Onp il compito di provvedere all'ero~azione di quei beni meritori (sanità, educazione, tutela ambientale, ecc.) che è in grado di produrre a costi inferiori dell'operatore pubblico e che il mercato può soddisfare solo parzialmente (per es. per i ceti più abbienti). Anche a livello internazionale, lo studio delle attività delle Ong aveva portato a conclusioni non ~olto diverse. Le Ons di ?viluppo vengono viste con sempre mag~10re mteresse ed apprezzamento da molte istituzioni internazionali (dall'Onu alla Banca Mondiale alla U.E. ecc.) per via della loro efficacia ed efficienza, rispetto alle strutture statali e parastatali, soprattutto nei programmi di assistenza e di microdevelopment2. Accanto a questa impostazione, che dagli States è arrivata in Europa ed è diventata maggioritaria anche nel nostro paese3, si è sviluppato un altro filone che vede un ruolo crescente del cosiddetto "terzo settore" data l'incapacità del mercato e dello stato di dare risposte a bisogni fondamentali. Fra i più importanti esponenti di questa scuola di pensiero, che vede nelle Onp l'asse portante per uno sviluppo comunitario, vale la pena, nspetto al nostro ragionamento, di riprendere in mano il noto testo The end of Work di Jeremy Rifkin4 • La logica di Rifkin è strigente. L'automazione ha prodotto, dalla metà degli anni Settanta, una costante espulsione di forza-lavoro nell'industria, assorbita in gran parte dal poderoso sviluppo del terziario privato e eubblico fino alla fine degli anni Ottanta. Oggi, anche il terziario subisce l'impatto delle nuove tecnologie telematiche per cui, malgrado i salti mortali di alcuni governi e il genepraio degli incentivi alle imprese, l'occupazione tende a ridursi drasticamente in tutto l'occidente. Da qui ne deriva che "gli Stati si troveranno di fronte a scelte alternative: finanziare il rafforzamento delle forze di polizia e costruire nuove carceri per imprigionare la sempre più vasta classe criminale, o finanziare forme alternative di lavoro nel terzo settore" 5 • Rifkin, che appassionatamente sceglie questa seconda alternativa, pensa giustamente che sarà necessario, attraverso la spinta dei movimenti della società civile, "trasferire quanta più parte possibile dei guadagni del settore privato al terzo settore,•in modo da rafforzare e approfondire i le~ami sociali e le infrastrutture"6, E per raggrnngere questo obiettivo auspica una nuova alleanza tra "istituzioni pubbliche e terzo settore". Purtroppo le cose non sono né così facili, né così lineari. Innanzitutto, l'idea di fondo di una "fine del lavoro" non è del tutto convincente: più che scomparire il lavoro si degrada (come tutte le altre merci). I sei milioni di nuovi posti di lavoro dell'era Reagan n·on erano una invenzione della scuola di Friedman, si tratta solo di capire che era "travail de merde". È vero che l'industria, in occidente continua ad espellere occupati, che una parte del terziario fa e farà lo stesso (nella distribuzione, banche, assicurazioni ecc.), ma è anche vero che crescono i lavori "servili" che cresce quella che Marx _avevachiamato "la classe dei servitori", che a metà del'ottocento, in Inghilterra, era ancora maggiore della classe operaia. Molte delle attività di cura della persona o dell'ambiente, che vengono indicate proprio come quelle tipiche del terzo settore, trovano nell'offerta di lavoro servile a basso costo un formidabile concorrente. Infine c'è un altro aspetto che rende debole questa prospettiva: l'analisi è tutta interna all'occidente, non tiene conto dei mutamenti nelle relazioni nord-sud (per esempio di quella grande spinta sociale che viene dall'immigrazione) e, soprattutto, considera il mercato mondiale come una variabile indipendente che determina le coordinate entro cui ritagliarsi uno spazio di azione comunitaria. In estrema sintesi si può dire che l'enfasi posta sulle Onp, sia nella versione di "ruota di scorta del sistema capitalistico", sia nell'approccio alternativo, hanno il limite comune di lasciare in ombra, ed al sicuro, l'azione del mercato globale e della sua più avanzata espressione, l'economia finanziaria, che determma la vita e la morte di milioni di persone, che svalorizza il lavoro e la sua dignità, che produce guerre ed un numero crescente di merci con valore d'uso negativo, per l'uomo, le donne, i bambini e l'ambiente che ci circonda. Le radici culturali dell'economia non-profit In generale, si può dire che tra coloro che studiano le esperienze del terzo settore pochi vi hanno partecipato, sperimentato, vissuto RICCHI E POVERI
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