La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 16 - giugno 1996

ECONOMIA SOCIALE Rinaldo Gianola Viviamo in un mondo strano. In tempi largamente incomprensibili. I nostri valori della convivenza civile sono quotidianamente messi in discussione. I confini del Bene e del Male si spostano velocemente. Non abbiamo certezze, né quelle vecchie, né tantomeno di nuove. Le ideologie ci hanno abbandonato e, quasi quasi, le rimpiangiamo. Quale riparo ci potevano offrire! L'Età dell'informazione, delle tecnologie e del mercato ci pone di fronte a sfide pesantissime e sorprendenti. Se negli Stati Uniti il positivo sviluppo dell'economia crea migliaia di nuovi posti di lavoro, Wall Street crolla perché teme che le aziende, costrette a pagare più addetti, riducano i profitti. Al contrario se l' American Telegraph and Telephone, una delle più grandi compa$nie di telecomunicazioni al mondo, annuncia ti licenziamento di 40.000 dipendenti, il titolo in Borsa schizza al rialzo. "Un tempo i licenziamenti di massa erano una vergogna, un'infamia - scrive l'insospettabile "Newseek "- oggi più si licenzia e più la Borsa è contenta". Sono i "naturali" fenomeni del mercato, che nemmeno i fOteri pubblici riescono più a controllare. Anzi sono essi stessi subalterni al mercato. "I politici"- sentenzia Hans Tietmeyer , presidente della Bundesbank, la potente banca centrale tedesca - sono ormai sotto il controllo dei mercati finanziari". E, su un altro versante, Mare Bionde!, segretario generale del sindacato francese Force Ouvrière, assicura che "i poteri pubblici, nel migliore dei casi, altri non sono che subappaltatori delle imprese: il mercato governa, il ..;_';\~- .,,,·?. "' mercato gestisce". In questa situazione è certamente stimolante, e anche consolatorio, poter pensare che tra Stato e mercato, visto il corollario dei loro disastri, esista una terza via di organizzazione sociale ed economica, non pianificata né asservità al profitto, solidale e non competitiva, che metta al centro del suo sviluppo l'uomo e non la macchina, o la tecnologia oppure la Borsa. Stretti come siamo dalle sollecitazioni a essere sempre più concorrenziali, efficienti, flessibili e silenziosi, nel lavoro e nella vita, minacciati dagli effetti dell'erosione dello stato sociale - l'assistenza ai cittadini, la sanità, le scuole, le pensioni costano troppo per un sistema di mercato, è ovvio -, la sola idea che esista una strada alternativa a quella che il mondo Occidentale ha in prevalenza seguito fino a oggi ci rasserena. Ma, mentre speriamo che il terzo settore raccolga un consenso crescente e si emancipi dai ristretti seppur qualificati limiti in cui finora ha operato, non possiamo nutrire soverchie illusioni, né tacere davanti a possibili fenomeni di intromissione, o contaminazione, che sembrano maturare addirittura negli ambiti istituzionali del capitalismo italiano. Quando sentiamo esponenti della confindustria o Umberto Agnelli asserire che il non profit avrà un grande ruolo in futuro per l'assistenza sociale, come sbocco per le inevitabili masse di disoccupati che la rivoluzione tecnologica creerà, ci viene qualche sospetto. Tanta generosità non è gratuita. Ecco a cosa pensano: a delegare ai settori più sensibili della società le grandi questioni sociali irrisolte, a trovare un materasso che attutisca gli inevitabili conflitti, a trasferire fuori dalle fabbriche e dagli uffici le tensioni delle ristrutturazioni e delle innovazioni dei processi produttivi. Il non profit dovrebbe, dunque, occuparsi della cooperazione e della solidarietà, secondo la visione del grande capitale privato, mentre le imprese di mercato saranno concentrate sul profitto, senza pericolose distrazioni sociali. A questo deve pensare il terzo settore? È davvero così. Il terzo settore, ma sarebbe preferibile usare la definizione di "economia sociale" perché contiene un significato più chiaramente antagonista ai modelli correnti, dovrebbe essere un sistema assolutamente alternativo allo Stato e al mercato e non complementare a essi. Non RICCHI E POVERI

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