La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 16 - giugno 1996

Per tutti gli anni Ottanta lo stato sociale ha subito attacchi pesantissimi da parte delle forze liberiste che hanno governato ovunque con l'eccezione di Spagna e Francia. Dopo il 1989 la demolizione è proseguita, anche dove al potere c'erano forze che non erano ideologicamente legate all'idea della scomparsa della tutela dei deboli da parte del potere pubblico. Quella che si delinea è nei fatti la scomparsa dello stato sociale in tutte le sue forme (dal- ]'onnipresenza scandinava ai milioni di italiani invalidi). Questo non significa che scomparirà del tutto l'intervento statale nel campo assistenziale, previdenziale o quant'altro, ma che: - non si da più un patto sociale nazionale; - i sistemi nazionali non sono più l'orgoglio, o la dannazione, del cittadino ma, per i meno abbienti, l'alternativa obbligata al privato, non si tratta più di qualcosa percepita come patrimonio comune di un paese; - in ogni caso il territorio occupato dallo stato sociale si restringe costantemente o si rimodella in maniera tale da configurarsi come qualcosa che è già altro dal welfare. Gli esempi sono moltissimi, basteranno la brutta riforma delle pensioni varata da Dini e votata anche dall'attuale maggioranza di governo, gli annunci di tagli previsti dai governi Chirac e Khol per quest'anno e la nascita del governo postfranchista di Aznar che già nel programma (più intelligentemente di Berlusconi a suo tempo) sterza verso il centro europeo e liberista e abbandona il manto sociale di cui la destra già fascista si copriva. Governi diversi, in paesi distanti sia per solidità economica che per struttura e forza dello stato sociale attuano la stessa politica. C'è da chiedersi come mai. Non ci sono solo i vincoli dettati dalle istituzioni sovranazionali (Maastricht), c'è soprattutto la perdita di potere dei governi nazionali sulla sfera economica. Siamo alla fine degli stati nazionali come ci ricorda il santone del potere triadico, il giapponese Keinichi Omahe nel suo ultimo libro. Se un'impresa ha la sua sede in qualche paradiso fiscale, produce in Indonesia alcune componenti e assembla il prodotto in un paese europeo dove impiega un numero minimo di operai e tecnici, il gettito fiscale che questa garantisce è minimo, alcuni limiti posti da un governo nazionale alla sua attività rischiano semplicemente di farne trasferire la sede sociale mentre il suo capitale finanziario può contribuire a _penalizzare una politica economica non gradita attraverso la speculazione contro la valuta di quel paese. Inoltre un andamento dei salari che favorisse i consumi ha più poco a che vedere con l'andamento della produzione e dell'occupazione interni, vista la caduta delle barriere doganali e la transnazionalizzazione di capitali e produzione. Se a questo aggiungiamo che i più grossi detentori di capitale finanziario della terra sono i fondi pensionistici e le assicurazioni sanitarie private degli Stati Uniti, ai quali interessa non poco una progressiva privatizzazione di pensioni e assistenza sanitaria, capiamo benissimo come la mobilità dei capitali sia in strettissima connessione con le politiche di ciascun governo. Susan Strange ha paragonato la situazione nella quale si trovano i governi nazionali a quella di pretendenti che devono farsi belli per attrarre su di sé le attenzioni-investimenti della principessa-impresa transnazionale. · Uno degli attori fondamentali che ha caratRICCHI E POVERI terizzato la costruzione del welfare è stato il movimento sindacale che, per effetto dall'automazione di fabbriche ed uffici, e dalla delocalizzazione della produzione, ha subito una perdita di potere contrattuale enorme. Non è un caso se in Francia durante la rivolta degli statali- contro il governo Juppé, nonostante i gravi disagi, i lavoratori privati, pur solidarizzando con i loro colleghi non hanno scioperato per paura di perdere il posto. Con la perdita di potere dei sindacati nazionali, quello che è stato un forte elemento di pressione e conflitto, in difesa dei diritti acquisiti e a favore di nuove riforme, lo strumento che ha contribuito a creare un clima di consenso attorno allo stato sociale, viene anch'esso meno. L'assetto della nostra vita quotidiana, la socialità, il rapporto con la città e con gli altri vengono anch'essi plasmati in peggio dalla forza del mercato globale. · Partiamo dal tema dell'esclusione sociale, prodotto del restringimento dei confini del welfare e del contemporaneo frantumarsi dei legami sociali preesistenti o creat_isicon la modernizzazione. Si pensi innanzitutto alle metropoli e alle loro enormi periferie. Le città si vanno rapidamente trasformando in agglomerati di isole incomunicanti; per alcuni è diventato più facile, rapido e psicologicamente tollerabile prendere il pendolino tra Roma e Milano che non andare di persona nei quartieri della sua città che osserva alla televisione nelle trasmissioni sul sociale. Quando parliamo delle città italiane dobbiamo naturalmente ricordare che alcuni fenomeni si manifestano, per ora, in forme relativamente attenuate rispetto alle metropoli del continente americano o anche delle grandi città di quello europeo. Le città americane come agglomerati di fortificazioni, casa per casa nei quartieri a rischio con le grate alle finestre e i figli nelle gang, isolati dall'esterno ma relativamente aperti al loro interno nelle aree residenziali più tranquille controllate dai vigilantes. A pochi chilometri da San Paolo del Brasile c'è invece Alphaville dove 23mila persone vivono circondate da 50 chilometri di mura e dove dagli anni Settanta a oggi è stato commesso un solo crimine. Le città si vanno tutte trasformando in mostri di questo genere dotate di un centro nel quale trovano posto le attività finanziarie e scintillano le vetrine delle stesse catene globali di negozi, i beni immobili salgono di prezzo e i vecchi abitanti vengono trasferiti per lasciare il posto ad uffici, banche, negozi d1 merci di lusso e luoghi di intrattenimento. Nei centri storici delle nostre città del resto sta diventando difficile trovare cibo che non sia confezionato su misura per giapponesi o americani, _prodotti non industriali ed esercizi utili a chi abita il luogo. Non pare perseguibile, per rendere più vivibile a chi abita le nostre città, la strada di quello che per molti aspetti è un modello mondiale di metropoli: la Parigi della presidenza Mitterrand. La città dei mega-progetti deve fare i conti con una realtà molto più difficile di quella che ci appare quando osserviamo ammirati la piramide del Louvre o scorgiamo in lontananza l'arco della Défense. Le rivolte periodiche dei casseurs delle gigantesche periferie, assolutamente invisibili dalle straricche strade del centro, film come L'odio o i li-

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