questo è quasi letteralmente vero dei racconti di Ammanniti, nei quali le donne, vive, morte, e più spesso moribonde, sono comunque tendenzialmente nude. Non è però che il Nostro, nella descrizione di questi corpi, rifugga sdegnosamente dai cliché: vorrei avere mille lire per ogni volta che ho letto di due seni "che nonostante l'abbondanza se ne stavano su, incuranti della gravità", come quelli di Giulia Giovannini in L'ultimo capodanno ...; e c'è in generale una certa sciatteria nello scrivere, particolarmente visibile nei dialoghi (conoscete qualcuno che dice "la merdosa squadra del Nola" anziché "la squadra del Nola di merda"? Io no) e nel pensiero indiretto libero ("un fottuto calvinista", "un fottuto bastardo", che a me pare una maldestra traduzione di f ucking bastard). O forse questo fa parte della poetica trash dell'autore, e vuole significare che oggi davvero c'è in giro gente che parla e pensa come un film americano tradotto male. Non lo so. Adesso che ho fatto l'odioso maestrino con la matita rossa e blu, devo però dire che Ammanniti ha dei buoni numeri: il miglior racconto del volume si chiama rivelatoriamente Carta, e questo giovane scrittore è al suo meglio quando fa il verso a una qualche forma di carta stampata, si tratti del dépliant pubblicitario del 1972 che illustra il Condominio sulla Cassia, di un testo di zoologia o della "sceneggiatura su Ciro, cane poliziotto" scritta da Deborah Imperatore Cordella; è un talento che l'autore di Fango potrà sfruttare quando gli sarà passata la fregola di fare il Clive Barker capitolino. A giudicare da questo libro, però, Niccolò Ammanniti è ancora un'ipotesi di scrittore, più una promessa che fa delle buone prestazioni che un giovane talentoso che gioca già stabilmente in prima squadra, una specie di Giovanni Di Somma - del Palermo - e non certo un Ivan de la Pena, l'asso diciannovenne del Barcellona. Chi invece non riesce a diventare nessuno dei due è Tonino, uno dei protagonisti di un altro libro uscito all'inizio di quest'anno, L'erba cattiva di Andrea Carrara (giunti, 20000 lire): la Viterbese vorrebbe ingaggiarlo, ma a sedici anni ci vuole la firma paterna sul contratto, e il sor Umbe', genitore alcolizzato nonchè fallito, gliela nega, in odio al sor Polito, patron della compagine locale ed e'x-datore di lavoro, ma soprattutto perchè il rifiuto gli offre l'occasione di tornare per un attimo protagonista in famiglia e in paese. Segue tragedia, e non sto svelando niente, l?erchè in copertina campeggia un bel pistolone. Carrara, nato a Roma come Ammanniti e anch'egli giunto al suo terzo libro (il secondo è stato. il branco, di cui ha anche ca-sceneggiato la versione cinematografica), ambienta la sua storia in un paese a quaranta chilometri da Roma, seguendo una tradizione narrativa assai solida, quella veristico-provinciale. Dotato di spirito d'osservazione - sono tante le piccole scenette e i particolari, in genere sgradevoli, che convincono pienamente - e alquanto ispirato nelle scene di maggior tensione, Carrara ha scommesso molto sui dialoghi, sulla parlata "bora", sulla reiterazione di tutta una serie di "levete dar cazzo", "la mi' regazza" e "ce lo dicevo sempre io", per evocare la claustrofilia mentale di questo piccolo mondo angusto. Né sarebbe esatto dire che i personaggi del libro hanno 'orizzonti ristrettissimi': l' orizzonte non l'hanno mai visto, perchè c'era davanti una palazzina abusiva in costruzione. Non ci sono vie d'uscita di sorta, quando anche il pellegrinaggio a Roma dei giovani protagonisti è solo un'altra occasione per ruminare i soliti pensieri. E la voce narrante 'italiana', invece, se volete sapere - parafrasando il sor Polito - "il parere de no'stronzo", a scadere a volte nell'umorismo involontario: nel bar del paese c'è un "sudicio" manifesto che ritrae "Cicciolina seminuda che ammicca al fotografo da dietro un cortinaggio trasparente" (che vorrebbe esprimere lo squallore del locale, ma a me ricorda irresistibilmente il segretario di Ugo Tognazzi in un film di franco Rossi, che recita con forte accento siciliano il titolo di un film da mandare al rogo, cercando di esprimere un altero distacco: "Sansone e le sette schiave nubiane ... nnudee"); c'è una ragazza che balla in mezzo alla strada, i cui capelli "si agitano convulsi come un mare in burrasca"; e, ancora, leggiamo: "un urlo disumano squarcia la quiete del vicolo". Bisogna comunque riconoscere a Carrara di aver raccontato spietatamente la versione alternativa delle success stories della nostra stampa sportiva: la prossima volta che leggerò - come spesso mi capita - sulla "Gazzetta dello sport" del mediano che prima di "fare il grande salto tra i professionisti" lavorava "insieme ai fratelli nella piccola impresa edile del padre" saprò più chiaramente a che cosa è sfuggito. La mia unica obiezione sostanziale è che, in effetti, ci troviamo di fronte a una J?ittu ra monocromatica: Philip Toynbee scrisse, a proposito di Molloy di Beckett, che una rappresentazione totalmente disperata della vita non è più realistica di quella che offrono i romamzi rosa, e io, nel mio piccolo, dirò esattamente lo stesso: cioè che, limitandosi ai toni plumbei, negandosi ogni forma di complicità con i suoi personaggi Carrara rischia forse di mancare l'autentico dramma. ♦ LJNei!ZZARROSTATOCONFù510NALECONTAADDISTINSt I MINùTI 1Mt1E.DIATAl1[NTE 5cJCCES51VI ALL't~RIMf.NTO NVCLfARf SòL· LAMIATtSTA. SUOLEDI VENTO
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