TEATRO La "Ravenna-Dakar": un viaggio teatrale di ritorno PiergiorgioGiacché Evidentemente i "viaggi teatrali" vanno fatti fino in fondo, e solo alla fine si capisce se erano progetti o soltanto avventure. E comunque andrebbero sempre tentati, qualunque sia il loro risultato, giacché, si è pericolosamente ridotto il "nomadismo" dei teatranti a fronte di una preoccupante quanto sterile tendenza ad occupare il proprio territorio, come se questo bastasse a diventare "occupati". E magari può darsi che qualcuno dei tanti sposalizi "in Comune" - cioè fra attori ed assessori - abbia dato come risultato qualche posto di lavoro e persino qualche posto dove fare teatro, ma al teatro inteso come arte e cultura non ha dato granché. Ma poi, è proprio necessario che il radicamento sia una scelta in contraddizione con quello spaesamento che è essenziale per quella minuscola e virtuale "fabbrica dellalterità" che è il teatro? "Ravenna Teatro", come dice la parola stessa, è un gruppo di origine controllata e dunque garantita: ha un nome e un ruolo e una responsabilità politico-culturale decisamente legata al territorio, ma questo non gli ha impedito, quasi dieci anni fa, di partire per uno strano e rischioso "viaggio". Un viaggio apparentemente a rovescio, dal momento che in un primo momento è consistito in un'apertura piuttosto che in uno spostamento; e però i viaggi teatrali non sono soltanto quelli dei carri di Tespi, ma anche quelli degli atton che, a casa loro, moltiplicano gli scambi e gli incontri fino a contrarre magari matrimoni più rischiosi e decisamente "religiosi". Così, "Ravenna Teatro" - che all'epoca si chiamava "Albe" - pur senza muoversi dalla Romagna ha cominciato a scoprire l' Africa, decidendo di dare ospitalità, o meglio di dare un'arte e ARTEEPARTE una parte, a dei viaggiatori senegalesi immigrati, coi quali ha fondato non uno dei tanti pretenziosi gruppi internazionali ma un ben più raro e presuntuoso espenmento di "meticciato teatrale". Eppure il meticciato è una scelta o una conseguenza per così dire naturale del teatro, e cioè di un'arte che compromette e mescola non solo i saperi e le tecniche ma anche le persone che la praticano; è qualcosa di diverso dai più freddi confronti interculturali, o dalle frequenti celebrazioni di una multiculturalità alla Benetton - che sarà magari il destino di tutti, ma non sempre (e non per tutti!) una festa, come invece sventatamente molti giurano che sia. Nel suo piccolo, invece, il "teatro di gruppo" è sempre "meticcio": almeno quando la sua segreta motivazione è quella di confondere l'arte e la vita e quando, dentro l'una e l'altra, il teatro si afferma come l'ambito e il mezzo di una relazione. Certo, non per questo il teatro regala facili amicizie, ma obbliga a faticose ibridazioni e a difficili comunioni in cui la professionalità e la quotidianità non è vero affatto che si vivano in modo separato e opposto. Così è successo che un gruppo di giovani attori italiani ha avvicinato alcuni di quelli che qualche anno fa venivano chiamati spregiativamente "vu' cumprà" (e che adesso, sia detto tra parentesi, non vengono più nemmeno chiamati) e ha scoperto che si trattava di artisti, anzi perfino di "figli d'arte": discendentida quelle famiglie di griot africani che si tramandano la conoscenza della storia, e della musica e della danza e della narrazione, e che sono in una sola volta i sapienti, gli insegnanti e gli artisti di una società contadina tradizionale. Così è successo che uno dei tanti gruppi di quella vasta minoranza teatrale che ha segnato la politica culturale del nostro paese, sia riuscito insieme agli artisti africani a rifondare la propria identità e, soprattutto, a ripensare il proprio progetto. Forse, sul principio, non ne saranno stati consapevoli, ma l'immissione nel collettivo teatrale di alcuni "viaggiatori" - fortemente provati dal viaggi o di andata e certamente motivati a costruirsi almeno una possibilità di ritorno - avrà di sicuro funzionato come un contagio e suggerito una segreta direzione al lavoro di "Ravenna Teatro". Esauriti dunque i primi spettacoli, che in fondo orgogliosamente esibivano la nuova identità e però, malgrado la novità delle storie e dello stile, non riuscivano a distaccarsi troppo da un messaggio "politico" e perfino da un compiacimento culturale, esaurito il tema del confronto e il problema di una reciproca alimentazione professionale, "Ravenna Teatro" ha lasciato il suo felice ma forse ancora teorico punto di partenza e si è messo a cercare un concreto punto di arrivo. Ovviamente l'Africa, il luogo del ritorno. È questo che ha spinto il regista Marco Martinelli - e soprattutto Mandiaye N'Diale, Mor Awa Niang e El Hadi Niang - a tentare più volte e in più modi la strada del ritorno in Senegal, cominciando con un vero viaggio a Dakar, ma anche costruendo uno spettacolo che in modo esplicito tornasse a dare un posto e un ruolo scenico ai griot. Questo ha peraltro spinto Luigi Dadina - uno degli attori italiani del gruppo - a cercare di riorganizzare un proprio ritorno, e dunque a rintracciare almeno la memoria dei vecchi cantastorie o "fuler" dell'ormai sepolto - sotto la sabbia del turismo marino - mondo romagnolo contadino. Ne è nato lo spettacolo "Griot Fuler", una combinazione di diverse personali odissee dentro i suoni e i gesti di altri tempi o soltanto di altri spazi. Forse gli stessi attori avranno valutato la loro proposta scenica come meno "nuova" o magari meno appariscente di altre più complesse e fortunate produzioni di "Ravenna Teatro", ma dal nostro punto di vista è sicuramen te la più convincente: "Griot Fuler" non è il punto
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