Da trent'anni Capodarco GoffredoFofi Il movimento di Capodarco, forte ormai di 15 comunità in giro per l'Italia, di quattro comunità associate e dell'integrazione in alcune comunità presenti in America Latina, ha celebrato il 25 aprile il suo trentesimo anno di vita. Nella sede di Capodarco di Fermo, dove era nata nel 1966, due anni prima del '68, per iniziativa di don Franco Monterubbianesi e di un gruppo di handicappati. Essi erano reduci da un pellegrinaggio a Lourdes che li aveva per molti aspetti disgustati. Avevano deciso di non "subire" più la discutibile, paternalistica e mediocre cantà di cui li beneficiavano le associazioni cattoliche e di non accettare in modo supino quella ancor più mediocre e ghettizzante dello stato. Avevano deciso di dire basta, senza appelli magniloquenti e campagne di stampa, che peraltro non avrebbero potuto permettersi, ma semlicemente organizzandosi autonomamente, vivendo comunitariamente, e rivendicando quel che era giusto rivendicare insieme. Facendosi soggetti, da oggetti che erano considerati e trattati. Attorno a don Franco e al primo nucleo di comunitari s1 raccolsero i primi volontari, sollecitando i primi aiuti di privati e di istituzioni locali e, '68 aiutando, la comunità crebbe, trattò con le istituzioni e ottenne servizi, organizzò attività di cura e si dette regole di vita comune. Seguirono don Franco altri due preti allora giovanissimi, tuttora animosi e determinati: don Angelo Fanucci, che organizzò una comunità a Gubbio, e don Vinicio Albanesi, che è l'attuale presidente della Comunità, nonché delle Comunità di accoglienza che si sono associate nel Cnca, delle quali Capodarco fa parte a fianco di altre, grandi (come il Gruppo Abele) o piccole, sparse in tutta Italia. Da allora a oggi molte, moltissime cose sono cambiate e molte battaglie sono state vinte. Fondamentale, per Capodarco, quella del riconoscimento reale dei diritti e della dignità degli handicappati. Quel che ieri era occultato e coperto è venuto alla luce, e migliaia, decine di migliaia di hand\cal'pati sono ogsi riconosciu u e apprezzati, sono tornati a far parte del mondo, a vivere nel mondo senza il peso di una vergogna assurdamente imposta né di ipocriti pietismi. Da questo punto di vista, sì, c'è stata una piccola rivoluzione in Italia e nel mondo, e per una volta una rivoluzione dagli esiti positivi. La parola handicap ha cominciato allora a star stretta ai membri del movimento, tanto cattolici che laici, sia credenti che non credenti, che nel frattempo erano andati organizzando le proprie comunità dal Friuli e dal Trentino alla Calabria e alla Sicilia, passando per Marche, Umbria, Lazio, Campania, Sardegna ... Intanto, non si trattava più, come agli inizi, di affrontare .soltanto i problemi dell'handicap fisico ma, sulla scia di Basagha, anche di handicap psichico; e presto ci si è dovuti confrontare non solo con i problemi sanitari, rieducativi, sociali, legali degli handicappati (e delle loro famiglie) ma anche con problemi sociali più generali, che riguardavano sii emarginati d'ogni tipo, il disagio diffuso nella nostra società dei due terzi, che riguarda un terzo della società, e che vede continuamente e sempre di più respinti ai margini altri strati, altri gruppi, altri singoli che partono svantaggiati o che non sanno reggere alle tensioni, alle crisi, alla coml'etitività, alle disparità di un sistema economico-culturale. Ecco allora sii interventi sul disagio giovanile, con i tossicodipendenti, con i malati di Aids, con i '.giovani disoccupati; ed ecco il lavoro di formazione interna e di specializzazione dei comunitari, nonché degli obiettori di coscienza, molti dei quali, finito il loro tempo di "leva", sono diventati a loro volta membri di questa o quella comunità, si sono dati una specializzazione e una professione, e alcuni hanno, soli o in coppia, aperto altre comunità o case-famiglia, hanno avviato altrove e su finalità contigue altre iniziative ... Il movimento si è allargato, è cresciuto nel mentre cresceva in Italia una crisi sociale e politica, andavano in pezzi molti modelli, cambiavano le classi e cambiavano le culture. Non insisterò nell'analisi della situazione presente, ed è peraltro perfettamente comprensibile il ruolo e il rilievo che il movimento ha finito con l'assumere nella situazione italiana odierna leggendo l'editoriale di don Albanesi che apre questo stesso numero di "La terra". Capodarco è una realtà nazionale, rappresentativa di realtà del disagio e dell'emarginazione e dell'handicap, che ha la forza di organizzare e proporre, di porsi come punto di riferimento anche politico per molti, e insieme a molte altre associazioni e a mo! ti altri gruppi sia di origine cattolica che di origine laica. Molta strada è stata percorsa dal 1966 a oggi, e attorno ai tre fondatori è cresciuta una organizzazione nazionale in grado di gestire, collegare, "agitare" in rappresentanza di quel terzo della società che non gode del privilegio di rappresentanze e di poteri, che consuma poco o molto poco, che vive fuori dai flussi delle mode e delle ricchezze che hanno finito per stravolgere l'immagine e l'identità stessa della smistra nel corso dell'ultimo ventennio. L'importanza e i meriti di Cal'odarco mi sembrano assodati, e per i lettori della nostra rivista non sono certamente una novità. Meno nota, ed è su questo che in occasione del trentennale mi sembra importante richiamare l'attenzione, è la varietà di proposte organizzative interne che le vane comunità dimostrano. Con molta autonomia, con molta libertà, ci sono comunità nelle quali vengono riconosciuti come membri solo i residenti, coloro che ne fanno parte giorno e notte, altre nelle quali
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