La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 15 - maggio 1996

re.nte di una morale comune abbia fecondato non poco la diffusione delle attività di volontariato, a volte intese quasi come un debito con la buona coscienza, l'occasione per saldare nell'incontro col bisogno altrui le "colpe" della propria vita quotidiana. Quasi una sorta di redenzione implicita, di bricolage individuale di buone azioni che vanno a compensare una quotidianità in cui non si può o non si riesce a tener conto dei bisogni degli altri. Se e quando è questo meccanismo ad attivare un gesto di aiuto, allora è evidente che la pur meritoria offerta di sé risolve un problema di identità dell'offerente molto più di quanto sia davvero volontà di capire e soccorrere l'aiutato. Paradossalmente e provocatoriamente, siamo noi che abbiamo bisogno di aiutare. Che ci si rifaccia ad una prescrizione educativa, alla morale cattolica o alla semplice e odiosa percezione di stare dalla parte dei privilegiati in un mondo governato dalla disuguaglianza del benessere, credo che frequentemente il gesto di aiuto saldi un conto tutto interno all'offerente. Ed è proprio questa chiusura originaria che fa problema, è il fatto di avere come punto di partenza sé e non l'altro a determinare lo scacco. Così, quando non ci viene detto "grazie", scatta non tanto la preoccuf azione di non aver colto ne segno con la nostra offerta, quanto un senso di fastidio: stentiamo a rinunciare alla reciprocità, fatichiamo ad avere una generosità gratuita, in un'ottica in cui, se l'aiuto è dovuto, a mag~ior ragione lo è la risposta riconoscente. Altrimenti resta l'impressione che i_ldebito sia ancora aperto, viene meno l'elemento consolatorio. In fondo il fatto che molti aiuti, dall'elemosina al sussidio, siano in denaro è significativo: è proprio come il saldo di un conto, sia esso quello della coscienza del singolo di fronte al barbone o della società rispetto ai suoi emarginati, e risolve così il problema dell'incontro col bisogno altrui. Il denaro media la diversità, è rapido e indolore, sembrerebbe risparmiarci la fatica di capire cosa vuol dire stare male e avere bisogno degli altri. Spesso però non resistiamo alla tentazione di capire, di indagare come verranno spesi i "nostri" soldi (i soldi offerti sembrano sempre ancora nostri), di verificare che vadano a buon fine. È un vizio che ci portiamo dietro da secoli: è almeno dal 1500 che esiste la distinzione fra vero e finto povero, che si dà la caccia al mendicante professionista, al parassita sociale, a chi usa l'e_lem<;>sinaper bisogni nonpnman. E in questi casi, quando l'aiuto si materializza 111 beni, azioni e scelte, che ci si accorge e si stenta a capire e accettare la diversa razionalità, la non omogeneità culturale. Il barbone non acquista i 3x2 del supermercato, il tossicodipendente non aseetta i saldi del negozio di abiti usati, la vecchietta che vive del sussidio non sfrutta le occasioni che appaiono su "Secondamano". Una razionalità adattativa, che sappia incunearsi fra le pieghe del mercato per sfruttare al meglio le proprie poche risorse - quasi che nelle case popolari abitassero tanti Robins~n Crusoe_ ingegnosamente 1mpegnat1 a far rendere al meglio 600.000 lire al mese - appartiene alla letteratura economica, alla fantasia di chi sta bene. Negli appartamenti dei quartieri Iacp c'è il videoregistratore ma manca lo scaldabagno, il padre non compra il giornale ma non fa mancare al figlio la moto di grossa cilindrata, ci può essere ogni tipo di elettrodomestico ma nemmeno un libro, fosse anche il dizionario di italiano. Le nostra scale teoriche di bisogni primari, secondari e voluttuari non tengono, non spiegano nulla di quella economia: ed è un dramma, per la contabilità nazionale che non riesce a individuare chi sono e quanti sono i poveri, per noi che vorremmo il bisogno degli altri razionale, abile nel calcolare le rinunce da fare. Ma non è così, perché la ~ razionalità (così come la intendiamo noi) è spesso un lusso, di chi è in buona salute, ha tempo, denaro e un buon livello di istruzione e informazione. È stato detto che la vera rivoluzione degli ultimi decenni è q_uelladell'istruzione, dell'alfabetizzazione di massa, che ha aumentato di molto la razionalità collettiva, cioè il fatto che la nostra vita quotidiana (fare la spesa, rinnovare la patente, iscrivere un figlio a scuola, ...) possa esser governata sempre più da procedure lo~iche, coerenti, riproducibili, osgetto di apprendimento e msegnamento. Ma è stato anche osservato che questa razionalità dipende in buona parte dalla professionalizzazione del lavoro, come codifica e consolidamento di un sapere, quindi di razionalizzazione dell'azione. Il problema è che spesso la condizione di bisogno si associa a quella di esclusione, sia essa da un percorso di istruzione e formazione adeguato, dalla partecipazione stabile ad un ambiente di lavoro o dalle relazioni che derivano da una vita sociale attiva. Vengono così meno gli ambiti essenziali in cui apprendere e condividere molto della razionalità collettiva, cioè cosa fare è come fare, dal comprare la macchina a cercare un medico specialista, dal trovare un lavoro alla scelta della località di villeggiatura. Tanto migliori sono le nostre condizioni sociale ed economiche, quanto maggiori sono le nostre chance di agire razionalmente, cioè di soddisfare i bisogni efficacemente, rapidamente e al minor costo. Può sembrare paradossale, ma è uno dei meccanismi fondamentali per cui il benessere genera benessere, mentre la condizione di bisogno è doppi amen te penalizzante, in quanto tende a escludere dagli ambiti e dai circuiti che permettono la ricerca delle soluzioni migliori. Chi chiede l'elemosina davanti al supermercato, chi dorme sotto un ponte o chi vive di sussidi difficilmente agirà secondo ~li schemi e le logiche che noi vediamo come via d'uscita al bisogno. La precarietà delle entrate, le incerte condizioni di salute, l'esclusione dai circuiti di informazione e apprendimento riducono drasticamente le possibilità dei singoli e dei nuclei familiari, deprivano della libertà, rendono estraneo un discorso di strategia consapevole di uscita dal disagio. La mancanza di risorse (denaro, salute, informazione) o la loro precarietà schiacciano al "qui e ora" l'orizzonte temporale entro cui agire (meglio un lavoro temporaneo subito che un impiego dopo un corso di formazione), limitano il raggio fisico d'azione (i vantaggi di spesa del centro commerciale fuori porta non sono un'opzione di scelta per l'an-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==