La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 14 - aprile 1996

CITTA' DEL MESSICO. LA CITTA' E LA SUA RAPPRESENTAZIONE J uan Vi/loro (traduzione di Sergio Lenci) Benvenuti al big-bang! Nel 1950 Città del Messico aveva 2,9 miliom di abitanti; nel 1970, 11,8 e nell'anno 2000 si avvicinerà a un numero che sembra essere una chiamata di emergenza prima dell'apocalisse: 30.000.000. L'unica cosa che può mitigare la paura _è che le statistiche messicane sono approssimative come le bilance di un mercatino. Non sapremo mai esattamente quanti siamo; la città è, in senso stretto, incalcolabile. Ne Le città invisibili Italo Calvino discute le possibilità del disegno urbano: "il catalogo delle forme è immenso: finché ciascuna forma non avrà incontrato la sua città, nuove città continueranno a nascere". Questo repertorio include, naturalmente, le città senza forma, che i topografi aerei chiamano "macchia urbana" e che esiste nella realtà con i nomi di Tokyo, Los Angeles, San Paolo o Città del Messico. Le macropoli hanno perso il loro centro, il nucleo logico dal quale un tempo si svilupparono. A Tokyo Roland Barthes ha sperimentato il fascino del vuoto centrale: la città come margine continuo. Gli abitanti ?i Ci~tà del Messico conoscono questa sensazione; 11paesaggio ci sovrasta in misura tale che l'unico modo di tenerlo insieme, di dar~li senso, è andare da una parte all'altra : funz10na in quanto è attraversato. In altre epoche la fama di una città poteva dipendere dalle vie che conducevano alle sue porte. I sentieri della cristianità conducono a Roma e Atlantide affascina, tra le altre cose, perché la via per arrivarci si è perduta. Poco prima di morire, nella lunga intervista sulla sua vita, Moravia, l'autore de Gli Indifferenti affermava che alcuni luoghi conservano la loro aurea magica perché per secoli sono rimasti inaccessibili. Dopo aver attraversato l'interminabile deserto, il viaggiatore giungeva dinanzi a Samarcanda; il vero prodigio era essere arrivato. Città del Messico cattura nella maniera opposta, la sfida non è arrivarci bensì uscirne. Le macropoli sono fatte per la traversata interna, sono un mare senza porto. In Die Unwirklichkeit der Stddte (L'irrealtà della città) Klaus R. Scherpe sostiene che la città moderna dipende dalla costruzione e quella postmoderna dalle sue funzioni (più che uno spazio edificabile è una scenario di spostamenti). La città moderna ha un appetito divoratore di vuoti, 9.uellapostmoder:na d1pe1:dem~no dal_larealtà fisica, è una complicata regione d1transito, un vettore di gente, informazioni, segnali stradali. Questi mutamenti nella rappresentazione urbana hanno il loro corrispettivo nella letteratura. Il romanzo dell'Ottocento tendeva a vedePIANETATERRA re la città come un tutto difficile da comprendere ma in fin dei conti articolato. In Notre Dame Vietar Hugo affronta la città come il libro di pietra che deve decifrare. Nei primi decenni del ventesimo secolo Alfred Doblin, Leopoldo Marechal, Andrej Biely e John Dos Passos scrivono romanzi il cui protagonista è la città intera. Un popoloso cast, una galleri_adi voci simu!tanee, pro_nuncia i nomi d1Berlmo, Buenos Aires, San Pietroburgo e Manhattan. Il ritratto finale è necessariamente frammentario poiché aspira a riprodurre il caos. La grande città manca di linguaggio strutturato; l'energia con cui avanza, il suo esuberante disordine, ricorda un mosaico rotto. Perso nel labirinto di Brandeburgo, Doblin dichiara: "Berlino è in gran parte invisibile". . L'immagine che accomuna questi romanzi è quella della giungla di cemento. Città: luogo per perdere la bussola delle strade e di sé stessi. Babilonia, Sodoma, Babele sono altri nomi per questi paesagsi di smarrimento e di perdizione. La selva dt ferro e calcinacci è una sfida morale e riceve invettive di "mostro", hidra, puttana. Nei suoi sterminati sobborghi il cittadino si espone a continue minacce; i muri lo isolano, i macchinari lo sfiancano, la moltitudine cancella il suo volto, il lavoro lo aliena. Nel 1931, nel suo romanzo I lanciafiamme, Roberto Arlt raggiunse un r:10mento di alta intensità in un passo sulla disumanizzazione urbana: "Complici ingegneri e medici si è detto: l'uomo dorme otto ore. Per respirare ha bisogno di tot metri cubi di aria. Per non imputridirsi e farci imputridire - sarebbe controproducente - la città ha bisogno di tot metri quadrati di sole, ed è con questo criterio che le città sono state edificate. Intanto, il corpo soffre". La capitale che divora e che annulla è stata oggetto di numerosi appellativi letterari, dall'escatologico "Cacania" di Musi! alla tripla D di Joyce (Dear Dirty Dublin), passando per l'apocalittico "Laboratorio per la fine dei tempi" di Kraus. La selva urbana obbedisce a un'insaziabile crescita fisica ed alla linfa corruttrice che la alimenta. L'immagine della città come oceano, come infinita zona di spostamento, comporta il _passaggiodalla s~premazia _vert_icalea qu~lla orizzontale, nonche un cambio d1 prospettiva; ha smesso di essere un tutto negativo. Le metropoli di oggi affrontano problemi così gravi che il più grande mistero è c~e funzionino. Dalla totale condanna della città, la narrativa è passata all'esplorazione delle sue forme di operazione. Nel 1994 Tokyo o Città del Messico sono così incomprensibili da scoraggiare il tentativo di ottenerne un affresco globale. La critica non si rivolge alla città come a un paesaggio _esterno, si ~se_rcitaall'i1:t~rno di essa. Uno dei precursori d1 questa v1s10ne è Elio Vittorini, autore di un classico che già nel titolo reca il ~eso d~ll'incompi~tez~a: Le città del mondo. L altro molo che V1ttorim aveva preso in considerazione era I diritti del1'uomo, e nonostante alludano entrambi ad una visione universale, l'originalità dell'autore si basa sul restringere al massimo il suo scenario. I personasgi de Le città del mondo non escono dalla Sicilia; viaggiano per regioni povere e periferiche ma trovano in ciascun luogo la formula degli altri. Comprendere il meccanismo di certi posti, il modello logico, significa scoprire che a Modica c'è Gerusalemme.

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