La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 14 - aprile 1996

trent'anni fa, e che costrinsero tutti a confrontarsi con la "questione manicomio" e con lo "scandalo" che la sua stessa esistenza rappresentava. Ma nessun dibattito mi sembra si sia avviato in questa occasione. La "questione" non si è riaperta: siamo in campagna elettorale, e politici, giornalisti, commentatori, "in tutt'altre faccende affaccendati", hanno fatto cadere la cosa, ammesso che se ne siano accorti. In un articolo sulla "Repubblica" del 31 maggio 1995, significativamente intitolato Torniamo a Bisaglia. Legge 180: una rivoluzione interrotta, Pier Aldo Rovatti scriveva: " (...) dagli scaffali delle librerie il nome di Basaglia è sparito. Chi oggi ha vent'anni (e magari trenta) non sa più niente di Basaglia (...) È giusto che sia così? Sono davvero così frenetici i tempi che stiamo vivendo, e perché nomi, intelligenze ed esperienze si bruciano in maniera tanto rapida? (... ) Basaglia era persuaso che il "matto" non fosse una questione marginale, ma che anzi attraverso il modo in cui è trattata la follia si possa capire molto di una società e di una convivenza civile (...) pensava che la "Follia" non fosse risolvibile né con un sapere né attraverso pratiche di contenimento, ma che è un problema di tutti. (...) Chiudendo i manicomi, non si cancellava il problema della malattia mentale grave: esso stesso veniva liberato e consegnato a una più amp_iaresponsabilità sociale. È proprio quello, mi sembra, che non è avvenuto. In: questo senso la legge ha provocato, senza volerlo, quasi l'effetto contrario: la sua approvazione ha determinato un po' alla volta la chiusura del confronto più ampio, tranquillizzando le coscienze e facendo nascere un nuovo atteggiamento di delega: non più a istituzioni di tipo coercitivo e poliziesco, ma alle nuove strutture mediche e sanitarie e ai nuovi "specialisti" ed "esperti" dell'accoglienza e della solidarietà, sia istituzionali che legati al mondo del volontariato religioso e laico. In realtà sappiamo che per qualcuno, molti, le mura del manicomio non sono mai state abbattute; per altri, più fortunati, le nuove esperienze avviate sono diventate realtà. Una realtà però semiclandestina, che sopravvive tra mille difficoltà, che non gode di sufficiente riconoscimento, ma soprattutto poco, o per nulla, conosciuta dal resto della collettività. Altri ancora sono ritornati, o sono rimasti, in famiglia, ri_proponendo situazioni cariche di difficoltà, d1 angoscia, di isolamento, a volte ai limiti della sopportabilità, che nelle situazioni estreme finiscono per "esplodere" nei drammi che ben conosciamo dalle cronache dei giornali, e per i quali qualcuno manifesta ancora "stupore". Quando la "custodia" era considerata lo sbocco naturale ed inevitabile, quando la morale e il sentire comune da una parte e le leggi e le istituzioni dall'altra coincidevano nel giudicarla un provvedimento doloroso ma necessario per "tutti", la famiglia, pur vivendo con sofferenza questa scelta, ne era allo stesso tempo rassicurata, poiché veniva sollevata dal peso della responsabilità e della gestione del "p,roblema", un problema spesso troppo grosso, che non era in gradb di sopportare.La società nel suo complesso, anche se in modo punitivo e repressivo, si faceva carico del problema. Con la chiusura di molte di queste strutture di "contenimento" non è emersa una queSAWTt: EMALATTIA stione legata alla presunta "pericolosità" degli ex degenti, come da alcune parti si paventava e minacciava, se non in rare e non generalizzabili circostanze. Si è posta invece, in modo drammatico, la questione della governabilità di situazioni familiari chiamate a gestire ciò che non sempre sono in grado di gestire. Non c'è da sorprendersi quindi se il malessere e lo scontento nei confronti della 180 provengano spesso da famiglie. Per secoli la follia è stata rimossa, sepolta e separata da sé. Non basta una legge per cambiare un atteggiamento così radicato e profondo. Ancora Rovatti nel suo articolo, parla del "disagio", della "difficoltà" da parte della società, ma anche delle famiglie, "di farsi carico della follia. Follia che ciascuno vorrebbe delegare e allontanare, perché tutti siamo più rassicurati quando sappiamo che essa è rinchiusa da qualche parte." "Esperti" del dolore ·"Noi non saremo mai d'accordo, e voi non mi convertirete mai alla vostra fede", così si rivolge ancora lvàn Dmìtric al medico del padiglione dove si trova ricoverato-recluso. "Non sapete nulla della realtà, non avete mai soff erto. Vivete come una sanguisuga delle sofferenze altrui. lo ho sofferto senza requie dal giorno della mia nascita. Ve lo dico perciò chiaro, mi considero sotto ogni rapporto superiore a voi, e più competente: non sta a voi darmi delle lezioni." Chi per una vita costruisce tavoli e sedie è considerato un esperto falegname. Chi per anni regista entrate e uscite di una ditta commerciale, un esperto contabile. Chi "ha sofferto senza requie dal giorno della sua nascita" non è forse un "esperto del dolore"? Chi falegname non è si guarda bene dal dare consigli a un falegname su come tagliare, piallare o incollare una sedia. A un ragioniere chiederemo lumi per districarci dal groviglio di complesse contabilità. Ma chi ascolta un esperto del dolore? Chi è disposto ad arricchirsi della sua esperienza? È una professionalità e una competenza che non interessano; al contrario molti saranno prodighi di consigli. Se poi si tratta di sofferenza psichica la scansiamo perché fa paura o imbarazza. È l'antico problema del rapporto tra "noi" e "loro". Tra noi che, bene o male, siamo in grado di governare la nostra vita attraverso il mondo, e loro, quelli inadeguati, inadatti a questa navigazione. lvàn Dmìtric è un "pazzo" lucido e consapevole, che inveisce contro il mondo e l'istituzione dalla quale è oppresso e si sente oppresso. È solo e la sofferenza è tutta sua. Ma chi consapevole non è? O meglio, chi nasconde il mistero della propria consapevolezza? Potremo mai conoscerne realmente la sofferenza, la letizia o l'indifferenza? La sofferenza allora, non rimane racchiusa nell'intimo di una sola persona, ma si fa sistema, si allarga a una sfera più ampia, alla sfera di chi ne condivide il difficile percorso esistenziale. Condivisione So poco delle comunità di accoglienza. Vorrei saperne di più. Conosco invece alcune situaziom familiari, compresa la mia, che vivono il "problema". Il problema di un bambino che si fa ragazzo e non è in grado di costruire la prop 7ia autonomia. Un problema che ha la

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