mento appartengono i nostri quindici eroi? Sono tornato all'università dopo molti mesi di assenza. Avendo letto sui giornali di una guerra tra prof essori mi aspettavo non dico di vederne i corpi straziati in qualche angolo, questo no, però almeno di trovare, che so, vetri infranti, segni di pallottole sui muri, qualche dentiera calpestata dalla folla in fuga. Invece il dipartimento d'italianistica è come al solito deserto, una ragazza accovacciata su una panca (inchiodata a terra per volere del preside, così non la si può utilizzare per le assemblee) attende un improbabile colloquio con un professore; tre ragazzi cercano di iscriversi al1' esame tramite computer, come da regolamento interno (modestamente il dipartimento è all'avanguardia, almeno in questo); un ragazzo con l'aria da sfigato cerca invano il calendario degli appelli. Insomma di professori, come di battaglie, neanche l'ombra. Ma come, tanto rumore per nulla? Dov'è il professor Ferroni, quello che in polemica non propriamente letteraria con Asor Rosa ne ha · ricordato amanti e misfatti? E il povero Pedullà, già presidente della Rai, firmatario insieme ad altri autorevoli colleghi di una lettera in cui denuncia il comportamento di Asor, reo di aver impedito loro qualsiasi libertà di iniziativa? e che fine ha fatto Asor Rosa, attaccato da Ferroni, rimproverato da Dionisotti, sostituito da Amedeo Quondam sulla poltrona di direttore di dipartimento? Poche sere fa alla Casa delle Culture è stato proiettato un video sulla Pantera. Non una commemorazione nostalgica del movimento del '90, per carità, solo un tentativo di storicizzare un'esperienza per capirne meglio le dinamiche. Mezz'ora di filmato e poi il dibattito. Ad un certo punto si è alzata una ragazza, Silvia - per gli amici Silvie' - che, con aria ingenua, ha chiesto: "scusate, ma a voi il Movimento che vi ha lasciato?". A quel punto gli stessi che fino a tre minuti prima avevano spiegato in maniera esemplare tempi e modi, congiunture e fasi dell'Italia di Craxi hanno avuto un lieve sbandamento. Forse perché questi sei anni sono stati caotici (c'è chi si è infilato' dentro un partito, chi s'è messo a studiare, chi cambia marciapiede pur di non incontrare i suoi vecchi amici), forse perché dentro l'università non si capisce un accidente, tra un Asor Rosa che va in giro per assemblee del Pds spingendo gli studenti alla lotta dura, e un collettivo studentesco - che si è sempre distinto per l'intransigenza della sua azione politica - che accetta di gestire un buco di cinque o sei metri quadrati per due giorni alla settimana (dividendolo con quelli del piddiesse e con quelli di alleanza nazionale). Insomma, a dibattito finito la conclusione è ~tata che l'unica cos~ c?e h~ portato la Panter~ e una cattedra a Grusc1 (rrnlle e passa studenti ad ogni sessione d'esami, voto garantito dal ventisette in su; e quando un paio d'anni fa Remo Ceserani ha mosso alcune accuse sul modo del professor Armando Gnisci di concepire l'insesnamento delle Letterature comparate, costui ha pensato bene di rispondere con gli insulti). . Alle otto della sera l'unico posto in tutta la città universitaria nel quale si può studiare sono le aulette blu di biologia. Si tratta di un prefabbricato di due piani dai muri celesti, dove tra l'altro resiste una delle ultime aule autogestite dagli studenti, dopo che la maggior parte è stata "liberata". Fino a qualche anno fa, si conducevano delle periodiche battaglie "per gli spazi". Oggi non più, o almeno quelle che si fanno non interessano nessuno, anche perché l'università è sempre meno un posto dove vivere, studiare, parlare, e sempre più un posto di passaggio. Capita sempre più spesso di essere fermati da qualcuno che cerca il dipartimento X o la biblioteca Y: credi che sia una matricola e poi scopri che è iscritto al secondo fuori corso, ma sono quattro anni che non mette piede in facoltà. E intanto fanno soldi quelli che promettono una laurea direttamente a casa, basta resistrare le lezioni trasmesse in televisione e poi il nostro numero verde vi metterà a disposizione insegnanti e libri. Scherzi della storia, milioni di poveracci a combattere per un'università aperta a tutti e .poi, quando oramai si è radicata nella gente l'idea che la laurea è una tappa normale nella formazione, arriva l'industriale e ci costruisce su il suo guadagno. "Libertà di impresa", "capitalismo avanzato", sì certo, ma qualcuno dovrà pur spiegare un giorno come mai in politica è accaduta la stessa cosa: anni e anni spesi invano per ottenere la partecipazione di tutti e poi arriva uno da Arcore e migliaia di cinquantenni scoprono l'impegno politico, la piazza. E in una di queste aulette dai muri blu e dai banchi giallo senape che mi metto a leggere Versi rock. L'hanno scritto quindici giovani linguisti romani, quasi tutti laureati o laureandi in storia della lingua italiana. Insieme ad un'altra decina di studiosi meno assidui, quattro anni fa hanno dato vita, un po' per gioco e un po' per scherzo, all'Accademia degli Scrausì. E cominciato tutt.o con un seminario sulla lingua delle canzoni. Un lavoro di gruppo che produce ottimi risultati e la decisione, maturata in un pub di San Lorenzo, di seguire l'esempio di illustri antenati ancor più giocherelloni. In questi quattro anni l'accademia si è anche occupata della politica linguistica in Italia, della lingua dei narratori contemporanei, ed attualmente sta portando avanti uno studio sulla realtà socio-linguistica di Roma. Ed è in questo clima di attenzione per la lingua e per tutto ciò che le gravita intorno, che nasce Versi rock. · Il libro si chiude (sissignore, lo so che sarei dovuto partire dall'inizio, e cioè dalla prefazion'= di Sandro Veronesi, ma a me piace leggere i libri così, prima la fine, poi l'inizio, vabbè ve lo spiego un'altra volta ... ) con un'intervista a Luca "Zulù" e Sergio "Serio" dei Bisca 99 Posse. Bellissima è la definizione che danno della lingua delle loro canzoni: -Fondamentalmente parliamo una lingua strana; parliamo italiano, però parliamo in napoletano, per cui alla fine la lingua che ci troviamo a mettere in musica più costantemente è questo napoletano un po' italianizzato, un po' edulcorato, quasi il napoletano che è diventato famoso con i film di Totò e con le commedie di Eduardo; un napoletano comunque più accessibile alle masse. Per me questa non è un'operazione culturale: è proprio la lingua che io parlo; il dialetto puro ormai è da tempo che a Napoli non si parla più. Alla fine scrivere i pezzi mi viene assolutamente naturale, scrivo come parlo per un fatto di realismo; sul palco mi piace essere esattamente quello che sono, SUOLEDI VENTO
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