La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 13 - marzo 1996

che fanno musica andina a coloro che suonano al ritmo heavy metal, le une accanto alle altre. Ogni stile adottato è rappresentato alla perfezione; i ragazzi giapponesi vestiti da andini sembrano più andini degli andini. Sembrano usciti dal padiglione appena terminato del museo folklorico di Osaka, centrato sui costumi e sulla ' ica latinoamericana. Ogni travestimento, sia esso vissuto come transitorio o meno, è radicale. I ragazzi di Yoyogi-koen prendono alla lettera i dettami del look che impersonificano; l'effetto è quello di un'adozione spesso sopra le righe. Trasformando e traducendo il mondo occidentale, viene recitato il teatro del mondo. Alcune band adottano codici culturali o sottoculturali meno noti; ce ne è una che ha con sé una claque di fans numerosa e molto attiva. I componenti del gruppo hanno capelli lunghissimi, vestiti neri e un'immagine assolutamente androgina. Ognuno ha i capelli di un colore diverso, dal giallo sfumato che tende al viola, al rosso vivo e chiaro dei capelli nelle maschere del kabuki - che, come d'altronde il teatro in occidente, in altri anni ha rappresentato l'essenza dell'androginia e del travestitismo, visto che le parti femminili erano interpretate da uomini e che apposite leggi in Giappone impedivano che tali attori fossero troppo giovani, evidentemente per tenere a freno omosessualità e pedofilia. (...) Allo stesso tempo l'androginia adolescenziale visibile a Yoyogi-koen, oltre a avere i suoi punti di riferimento - qua appena accennati - nella cultura tradizionale giapponese, è una delle categorie fondanti del rock che si è sempre incentrato sul culto del ragazzino e sulla conseguente conflittualità nell' assunzione di distinti ruoli sessuali. Molti eroi del rock appaiono né maschili, né femminile, ma neppure omosessuali, ponendo il gioco della differenza e dell'indeterminatezza al centro della loro performance. (...) A Yoyogi-koen, i giovani che là si danno appuntamento eccedono la logica dell'ambiguità (o della non definizione puntuale) di un'identità che si fonda nel sesso, nell'etnia stiracchiando fino all'opacità le coordinate individuali e sociali. È la perversità come forma della diversità. Se le divise scolastiche - che vengono molto usate in Giappone, anche perché tutti i giovani hanno un lungo processo di scolarizzazione - ribadiscono e racchiudono l'appartenenza a un sesso, a una classe socioeconomica e alla scuola a cui si è iscritti e connotano in maniera molto precisa il giovane individuo, a Yoyogi-koen tale logica viene sovvertita: il sosgetto fa perdere le tracce della propria identità sociale e individuale. E impressionante la varietà dei codici espressivi che vengono utilizzati a Yoyogikoen ma anche e soprattutto il fatto che tale adozione appaia totale, portata fino alle estreme conseguenze fisiche. In superficie, tutte le identità sono possibili tanto che sembra un'autentica ossessione, sia per i ragazzi che per le ragazze, quella di ossigenarsi i capelli - ovviamente da un punto di vista genetico non possono essere biondi. L'effetto di questo strano colore che ottengono sulle loro capigliature corvine è perturbante, come la pelle non più nera ma neanche bianca di Michael J ackson. I giovani corpi si fanno paesaggio mutevole, non luogo d'identità, sotto gli occhi stupiti dei turisti. Il rock non appare più allora un'uSUOLEDI VENTO topia, ciò in cui era riposta la forza irruenta della sua fase nascente, ma si abbandona alla poetica del luogo, dei corpi come luogo. La propria storia è vulnerabile, gli oggetti fragili. Tutto ciò può consentire altre aperture, altre chiusure. Divenire ibridi. L'esperienza del vivere appare come l'arte di sperimentare e attraversare mondi, muri, identità; essa fonde il corpo organico con appendici inorganiche, ingloba frammenti e stereotipi culturali incastonandoli addosso. L'identità adolescenziale sembra pattinare in superficie, al cui stesso livello restano le domande che uno stupito occidentale si pone e le frasili e compite risposte che si dà. Si ha l'impressione che s1possa rimanere vent'anni in Giappone comprendendo ciò che si è confusamente pensato il primo giorno: l'evidenza della superficie nasconde l'oggetto della propria osservazione. Sembra che tali giovani facciano di tutto per sfuggire da un corpo dato in sorte e non scelto, per evadere dal sesso, dall'etnia, dalla propria memoria storica. Si ha l'impressione di una duttilità estrema, dove finisce il confine fisico, sin dove si può tirare e sbrindellare la natura, la propria cultura di appartenenza? A Yoyogi-koen tutto appare una buccia senza spessore, liscia, levigata. Yoji Yamamoto, creatore di moda, afferma: "Per me il corpo è niente. Il corpo è i1 cambiamento [...] Non posso credere nel corpo umano. Non penso che il corpo umano sia bello"2 . Dietro alla visione del Giappone sembra annidarsi continuamente l'idea del vuoto, l'aspirazione a un grande nulla. Nei corpi adolescenziali nel parco di Yoyogi s'intravede un'intima accettazione dell'idea promossa dal buddismo dell'impermanenza, che tutto è mutevole, in transito. ( ... ) Note 1. R.Barthes, L'impero dei segni, Einaudi, Torino 1984, p.106. 2. New Fashion in ]apan, Kodansha lmernational, Tokyo, New York, $.Francisco 1984, p.37. ♦

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