blico, mentre l'etica religiosa è un affare privato. Secondo la concezione che qui presento, religiosa e razionale sono le due modalità fondamentali in cui l'esperienza etica si è detta; mentre la "nuova laicità" è la dimensione esperienziale dell'etica come tale. Come cristiano credo questo: che l'uomo etico esiste solo in forza della parola di Dio, incarnata in Gesù Cristo morto e risorto. Però, quella stessa fede che mi dice che ogni uomo etico è tale in forza di Gesù Cristo, in forza della grazia e del comandamento divino, mi porta a riconoscere quella grazia e quel comandamento anche di fuori dell'ambito della fede. È, questa, una interpretazione della fede che si autotrascende: una fede che riconosce che il Dio cui essa aderisce è presente anche nella coscienza etica di chi non crede in lui. Universalità dell'etica: il problema della verità Questa posizione sulla presenza dell'istanza etica in ogni coscienza, anche al di fuori dello spazio della fede, sembrerebbe garantire un consenso etico planetario su cosa è buono e cosa non lo è. Ci troviamo invece di fronte al massimo di differenziazione nei contenuti del1'etica. Sul piano della rilevazione storica si impone la constatazione della non-universalità dell'etica; mentre in linea di principio ne abbiamo affermata l'universalità. Effettivamente, l'etica è universale in quanto esperienza del dover-essere (aspetto "formale"), ma è particolare in quanto esperienza dei contenuti del dover-essere. Non basta: in linea di principio anche molti contenuti sono universali: lo sono qualitativamente, come testimonia la coscienza etica più consapevole ed educata: infatti in ogni esperienza etica c'è anche la co-esperienza che ciò che è giusto o non giusto per me lo è anche per gli altri. C'è una universalità qualitativa dell'esperienza etica: dentro l'"io non posso uccidere" c'è almeno il presentimento che questo imperativo non vale solo per me, ma per tutti. Dall'altra parte però quest'esperienza è sempre data, proprio in quanto esperienza, all'interno del mondo dell'individuo e, in quanto si oggettiva e si socializza, all'interno di una certa collettività, in quanto comunicazione e fusione delle esperienze etiche degli individui che compongono la collettività stessa. È vero, c'è anche la presenza di alcune esperienze particolarmente luminose, forti, quali ad esempio le figure profetiche; ma anche queste figure intanto diventano elementi normativi in quanto entrano nella circolazione sociale del linguaggio etico, e allora vengono sentite come interpretazioni migliori di quell'esperienza che già si era fatta all'interno del proprio gruppo e della propria cultura. Se noi ammettiamo l'universalità di principio della coscienza etica e al tempo stesso però la profonda differenza di fatto delle etiche, collettive e individuali, la domanda è se sia possibile, e come, costruire un'etica universale di fatto. Cioè: come è possibile costruire un consenso etico tra gli individui (nelle società complesse) e tra le culture? È il problema di come trasformare in universalità di fatto l'universalità di principio dell'etica. Mi pare che i modelli di soluzione possano essere ricondotti a tre. 1) Il primo è quello più semplice, noto e sperimentato, funzionante fino a non molto !&Z.JS2l:ll. tempo fa ma che oggi, almeno in Occidente, sembra abbia chiuso il proprio ciclo di efficacia: è il principio di autorità. Secondo questo principio, c'è un luogo determinato, un luogo storico, che è il depositario dell'etica universale, della verità etica. Questo è stato implicitamente il principio di tutte le religioni: luogo di verità etica è il mito e la sua trasmissione. Dico "implicitamente" perché le religioni locali non si ponevano il problema dell'universalità; questo problema si impone alle religioni universali, soprattutto se esse - come è il caso del cristianesimo - sono accompagnate dalla coscienza riflessa, cioè filosofica, del problema della verità. Allora l'insegnamento etico non può più proporsi soltanto come effetto del messaggio religioso (nel qual caso avrebbe valore soltanto per chi aderisce a quella religione) ma deve agganciarsi a un principio riconosciuto come universale: la natura umana. Questa posizione ritrova particolare forza nel magistero morale di Giovanni Paolo II (si veda la Veritatis splendor): egli intende parlare non solo ai cattolici ma a tutti gli uomini, perché parla a partire dall'idea di natura umana, in nome di quello che è il luogo ideale della verità etica. Giovanni Paolo II rinverdisce così una geniale intuizione di Tommaso d'Aquino. Dal punto di vista di un'etica filosofica Tommaso parla quasi come Kant: dice che la legge morale è scritta nei nostri cuori, nelle nostre coscienze, e quindi di per sé non abbiamo bisogno di leggi esterne, rivelate. Il principio dell'individuo eticamente maggiorenne è già nell'antropologia di Tommaso. Però egli aggiunge che questo è vero in linea di principio, non ai fatto; e la ragione è l'esistenza del peccato originale che ha oscurato la coscienza morale, la ragione etica. Ecco allora che Dio ha dato la sua rivelazione, la quale, insieme alla sua funzione propria di farci conoscere la nostra vocazione soprannaturale (Gesù Cristo, la chiesa, la grazia, la visione beatifica), svolge anche la funzione suppletiva di illuminarci su quelle verità che in linea di principio dovremmo gia conoscere con la ragione; tra queste, le verità morali fondamentali. Queste verità sono dunque, in teoria, razionali in quanto basate sulla natura umana e conoscibili mediante la pura ragione; ma hanno di fatto, storicamente, bisogno della rivelazione, essendo la ragione umana offuscata dalla colpa originale. E poiché custode della rivelazione è il Magistero, esso diventa anche custode della ragione etica ritrovata. Un'idea analoga (fatte le debite variazioni) ritornerà anche nel marxismo: il proletariato è la coscienza giusta dell'umanità, e perciò il soggetto della decisiva e definitiva rivoluzione storica; ma si tratta del proletariato ideale, della coscienza proletaria "per sé", che i proletari in carne e ossa non hanno (perché hanno interiorizzata - il loro peccato originale! - la coscienza del padrone). La vera coscienza proletaria, e dunque rivoluzionaria, ha il suo luogo nel Partito (poi nel Comitato Centrale, poi nel Segretario Generale). Anche qui troviamo dunque un luogo storico particolare in cui è presente quella verità etica di principio che manca invece alla classe generale. Ora, noi rifiutiamo, giustamente, questa soluzione; ma non è che ne abbiamo di migliori. D'altronde, essa contiene anche un aspetto valido: storicamente è vero che le coscienze etiche sono oscurate, bisognose di una guida
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