azzerando di fatto o_gnidimensione comunitaria o collettiva e, quindi, per quanto riguarda l'individuo e la sua coscienza, procedendo senz'altro a visualizzare e valutare soltanto lo stato molecolare del comportamento e del suo rapporto con le norme. E si potrebbe continuare, ma si rischierebbe di dare appena il quadro generico di una società e una cultura di massa qualunque, che ovunque e comunque si ritrova ridotta allo stato laicale, ma solo per difetto; si rischierebbe, cioè, di non parlare invece dell'eccesso, anzi del successo, dei molti mediocri predicatori di un "laicismo" che ormai si produce in atteggiamenti di paradossale integralismo (antireligioso) e perfino in comportamenti che sembrano mimare il vecchio, odiato clericalismo. Invece è proprio questo il punto: se si guarda al complesso delle attività e delle istituzioni che presiedono alla politica culturale (televisione in cima, ma poi scuola, enti locali e quel che resta dell'associazionismo partitico e sindacale), non è difficile scoprire che il ruolo e il potere dei "preti" di una volta è esercitato, con la stessa proverbiale protervia e con la stessa dose di paternalistica pedagogia, da un nuovo basso clero ordinato alla fede laica che, persino attraverso i media, battezza, comunica e soprattutto confessa gli italiani. Ma si tratta di un habitus o addirittura di una chiesa? Il generico fenomeno culturale a cui ci stiamo riferendo, è legato soltanto all'involontaria degenerazione dell'aggettivo "laico" o anche ad una operazione più cosciente e organizzata, nella quale hanno peso e spazio quei ricorrenti padri della patria che si sono accaparrati il sostantivo politico della laicità? Perché è ovvio che esiste, da un lato, un'attributo laico che è diventato di uso comune e di larga diffusione, e che vuol esprimere una base media di buon senso, di sufficiente razionalità, di mediocre accettazione dell'altro, di bassa sensibilità - e poi, però, un' eccezionale capacità di produrre su tutto opinioni, un elevato senso di equidistanza (di sé da tutti gli altri), un'alta adesione ai valori della neutralità qualitativa e della medietas quantitativa, una notevole ma civile avversione per ogni passione che non sia riconducibile ad una moda contingente o a un divertimento effimero. Ma, dall'altra, resiste e continuamente si rinnova un'area laica della politica e della cultura, che in buona sostanza plaude all'inflazione del laicismo spicciolo o deteriore, giacché spera di poter tradurre in voti e in ulteriore potere il generico successo di un termine diventato sempre più inodore e incolore. Dunque, di centro! L'occasione di passare da un'area disordinata e inconcludente a un'organizazzione più grande ed ecumenica, anche se sempre trasversale - dunque finalmente una "chiesa", magari protestante, oggi che i partiti-chiese di una volta sono chiamati a fondare "poli" - è avvertita da molti di quei politici e intellettuali che prendono sovente il nome di laici, solo perché .non hanno più un cognome. Forse questo disegno è legittimo e, chissà, magari nasconde anche un progetto, che per ora ci sfugge. Certo è che i suoi proponenti o militanti non sembrano guardare con interesse o con timore la nuova laica realtà sociale e culturale, né paiono tenere in gran conto la tradizione laica che noi rimpiangiamo. Per molti di loro, le radici e le ragioni laiche stanno piuttosto nel risorgimento di Cavour e le problematiche si fermano agli anni e agli uomini della Destra e Sinistra storica (oggi decisamente tornati di moda). Proprio pochi giornali fa, un'instancabile opinionista - dunque un laico - come Galli Della Loggia, si chiedeva se non fosse ora di far cadere gli «storici steccati» fra i laici e i cattolici italiani. Certo questa domanda dev'essere per lui attuale e imponente, visco che ha sfornato un giornale nuovo, e naturalmente "Liberal", come strumento di questo indispensabile dialogo. Contro le indecisioni di tal uni, a riguardo, Galli citava come prove della vivacità del conflitto, il fatto che la tradizione - e magari anche la proprietà - non avrebbe mai voluto alla direzione di "Repubblica" o del "Corriere della Sera" un giornalista di sicura fede cristiana, e che (ahimè) nei concorsi universitari delle discipline meno scientifiche e più umane "le etichette cattolico e laico siano ancora oggi etichette cariche di significato e di effetto, indicative di appartenenze forti .." '· Non stupisce né il ventaglio né l'efficacia dei puntuti esempi; non importa che per qualche intellettuale sia sufficiente scrivere e poi leggere lo stesso giornale su cui si scrive, per dire di avere un quotidiano e aperto contatto con la realtà (tanto poi di realtà, conoscine una e conoscile tutte!). Quello che addolora è constatare come la speranza di una propria definizione sia affidata ancora una volta ai cattolici, ovvero come di fatto si sorvoli su un'assente o debilitata autonomia del pensiero laico, ma ugualmente si sproni l'azione e il progetto di un laicismo politico che oggi ha per davvero tanto spazio - ha ragione Galli - ma che non ha più un senso. Certo, se poi è dall'abbattimento dello storico steccato che vuol ripartire la loro sfida, i laici sono messi davvero male. Oppure sono soltanto male rappresentati. La rappresentanza laica nel nostro paese non soltanto è scesa di livello, ma ha cambiato i modi e chiuso le porte a un più efficace ricambio. Che c'entrino per davvero i concorsi universitari? Che siano decisive le assunzioni e le direzioni della grande stampa? ♦
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