proprio per centralità che attribuisce alla progettazione, è incomprensibile l'atte-nuazione che il nuovo ordinamento fa della portata propositiva di questa disciplina; è colpevole il modo in cui sciupa la possibilità di sollecitare in esse quella progettualità poteniiale, nascosta, che pure ne abita gli specifici statuti. "L'Architettura è una scienza che è adornata da più dottrine e da varie erudizioni ..." chiosava Vitruvio nel I secolo a. C. (De Architectura, 1 ° capo, I libro); e ancora: "Sia f erciò egli - l'architetto - letterato, esperto ne disegno, erudito nella geometria, e non ignorante d'ottica, istruito nell'aritmetica, sian~li note non poche istorie, abbia udito con diligenza i filosofi, sappia di musica, non ignori la medicina ..." Senza indulgere a un vago quanto inattuale "principio di autorità", si voleva ricordare come nel famoso (e citatissimo da noi) programma di istruzione del trattatista augusteo, si prescrivesse all'architetto non tanto d1 eccellere in tutte le discipline elencate ma certo di tendere alla conoscenza generale delle varie metodologie proprie di ciascuna di esse, in modo che la sua competenza teorica fosse familiarizzata con le zone comuni delle singole "dottrine", lasciando ai vari specialisti il conseguimento di risultati novativi in ciascuna di tali branche del sapere. Il messaggio, tuttora attuale, probabilmente scomodo, che allarga le proseettive del linguaggio settoriale e apre alla moltiplicazione dei punti di vista, all'interpretazione eteroclita della realtà, apparentemente instabile ma di quell'instabilità che rompe la compattezza delle forme e favorisce un procedere erratico ma anche un soffermarsi, un ritornare sui propri passi, un aggirarsi insistito e saggiatore fra le discipline, considerate in fruttuoso dialogo fra loro. In un'epoca di caos babelico di codici, di ger&h( iperspecialist\ci e 1i linguaggi autonormat1v1, la progettazione e un problema complesso nella complessità del reale, accentrato su un intricatissimo ordito di fattori quantitativi e qualitativi, legati fra loro da relazioni di causalità multipla. Venirne a capo, dando un senso e una forma a questo magma, è l'arduo mandato che si richiede all'architetto. L'interdisci1;linarietà intesa come reazione sintetica e olistica ai tecnicismi, anima umanistica del vecchio ordinamento, è tra le risposte possibili alla complessità, la più convincente e avvincente, proprio perché, omeopaticamente (globalmente cioè, risalendo alle cause dei fenomeni e non limitandosi ad aggiustarne i soli sintomi), cerca di pervenire a un ordine e a una gestione dell'incertezza. La strada che persegue il nuovo ordinamento, sembra invece quella che appiattisce la facoltà su un tipo di progettazione che si potrebbe definire "politecnico". Ora, lo spirito teorico della scuola politecnica è uno spirito decisamente distruttivo; è lo stile di progettazione che ritiene ci sia una soluzione "Otti!11~" rer ogni problema. Co_m_ene~ problemi d1 antmettca delle elementari, m cui la soluzione che dà resto è sbagliata, perché i calcoli non possono dare resto, così la soluzione politecnica è quella netta che appunto non dà resto. Ma dopo la scuola si entra nella vita professionale e si scopre che i problemi quasi sempre non funzionano, che i calcoli cioè danno un resto di ricadute sull'ambiente fisico e sociale che non si possono ignorare. La mentalità politecnica, ingegneristica, affronta i problemi "maligni" come se fossero addomesticabili e crede di poterli risolvere come fossero calcoli senza resto, laddove i problemi non sono da "risolvere" ma da trattare, da manipolare, governare. L'avanguardistica via che dunque si indica al nuovo architetto, tutto Europa e ottimismo, per superare l'incertezza e la cbmplessità, è in realtà l'immarcescibile via del riduzionismo, araba fenice di un economicismo che ha già dato in passato solenni saggi della sua inefficacia e pericolosità. Quella cioè della settorializzazione, dell'ultraspecializzazione teçnicistica della figura professionale. La via che finisce dritta dntta in quella regione della scienza odierna da cui tutti ci sforziamo di venir fuori, dove i fisici parlano solo ai fisici, gli economisti solo agli economisti e dove impera una sordità specializzata per cui qualcuno che dovrebbe sapere qualcosa che qualcun altro sa non può scoprirlo f er mancanza di orecchie in grado di afferrare i generale. Dunque, che le discipline progettuali siano quelle che principalmente il nuovo ordinamento potenzia e privilegia, è vero fino ad un certo punto: tutto sta nel capire come. Perché, un altro rischio che si corre, è che rimangano definitivamente relegate al ruolo cui sempre più oggi vengono costrette dalle discipline analitiche (e dall'incomunicabilità con queste). Un ruolo di mera rappresentazionalità, ove la progettualità e architettonica e urbanistica si condensano, si emarginano in certe 'isole felici che lungi dal chiamarsi Utopia si chiamano Eurodisney. In esse, ogni relazione con la realtà è assente, ogni occasione per conferire con l'alterità è sprecata, e resta solo il patetico conforto di padroneggiare una dimensione esclusivamente autoreferenziale, solo formalmente accattivante in cui sembra aver senso una ricerca tutta interna al linguaggio architettonico. Ma se oggi il nuovo ordinamento, a Firenze, come nel resto d'Italia, scricchiola da tutte le parti, non è certo per ragioni di natura epistemologica. Dal Castello, chi l'ha conceP,ito e approntato, considera ancora inamovibili i principi su cui si poggia. D'altra parte i problemi di cui anche i più fanatici fautori della riforma si accorgono, sono prevalentemente operativi. Accade che questo ordinamento è ancora in massima parte disatteso nella sua applicazione. Tanto da rendere risibili certe risolute misure di contenimento che lo Statuto impone, come il numero chiuso e l'obbligo di frequenza a fronte di una generale equivalenza dei nuovi programmi didattici con i vecchi. I docenti, si sa, sono abbastanza restii a modificare i propri metodi di insegnamento con i contenuti che li sottendono quando vi siano per così dire affezionati. È ciò che è emerso anche nell'incontro fra i Collettivi di Sinistra delle facoltà di Firenze, Ferrara, Roma, Milano e Venezia che si è tenuto a Firenze il 4 e 5 novembre 1995. Nel documento che in quella occasione è stato stilato, vengono espresse delle perplessità più sul modo maldestro e pernicioso m cui ·il decreto del ventiquattro febbraio 1993 accoglie la Direttiva Cee, che sui principi che la stessa sostiene: "appare chiaro - è scritto nel documento - che q_uestastruttura didattica non riflette le direttive da cui scaturisce". Cioè, paradossalmente, ciò che avrebbe dovuto costituire l'anima innovatrice del corso di laureà, la didattica riformata e conformata sul modello anglosassone (molto studio in classe, poco a casa), è ancora nella sostanza attestata WOLE ,;>LVENTO
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