UNIVERSITÀ ARCHITETTURA: IL CASTELLO E IL PALAZZO Carmelo Argentieri Carmelo Argentieri studia Architettura a Firenze ♦ "Le voglio enumerare alcune delle ragioni che mi trattengono qui: il sacrificio che ho fatto nell'allontanarmi da casa, il viaggio lungo e faticoso, le speranze che ho nutrito a proposito della mia assunzione qui, la mia totale mancanza di risorse, l'impossibilità di trovare al mio paese un lavoro equivalente ... " (Kafka, Il Castello) Se c'è un'immagine capace di condensare sinteticamente il mondo universitario, un'immagine "parlante", che lo riassuma con immediata, esauriente icasticità, questa non può che essere il Castello di Kafka. Non tanto o non solo per la sua enormità di macchina burocratica dagli ingranaggi apparentemente perfetti, o per la rigidità irraz10nale e immutabile di certe sue regole, quanto piuttosto per la sua chiusura, la sua cupa, ottusa inaccessibilità di roccaforte, che rende così frustrante il bisogno di sentirsene parte. Ci puoi camminare intorno quanto vuoi, ma in un circolo del tutto insensato; ti puoi affannare a misurare da bravo studente-agrimensore le distanze che fanno il vuoto tra te e i professori, tra le tue aspettative per il futuro e la didattica dei corsi: le porte del Castello rimangono comunque invalicabili. Col tempo impari quasi ad assuefarti allo straniamento in cui è sospesa la tua condizione, lo stesso che prima credevi transitorio negli anni in cui timidamente, per piccoli passi, tra un vagare incerto e un assorto indugiare, prendevi confidenza con· l'imponente e immaginifico mondo dell'Università. Capisci che la resa è inevitabile davanti all'impossibilità di una partecipazione autentica al Castello e alle sue decisioni. Magari finisci per pensare che l'assurdità del suo moto (o non moto) contenga qualche traccia di insegnamento, occulta, sotterranea, meta-etica e tanto più alta quanto più gli avvenimenti che dentro vi si svolgono sembrano piatti: ti dici che forse l'Università è una metafora della vita dove certe volte per andare avanti devi usare l'astuzia, la scaltrezza, il sot- ~erf1;1gio_l,apazien~a: ~ ti consumi_ allor~ i~ mutili gin concentnc1, 111strenue m1suraz1om di distanze incolmabili, nello sforzo di scorgere fra gli ostacoli, gli "sbarramenti", un piccolo abisso, un rebus svelato, un brivido nuovo. La storia che qui si racconta, riguarda l' ultima emanazione del Castello. Una storia che è cominciata quattro anni fa, in mezzo a durissime polemiche ma che oggi fa agio di una certa stanchezza degli studenti, inascoltati interpreti di un'Università che raduni i bisogni di tutte le parti in causa, che non tarderà a trasformarsi in rassegnazione: tanto più che la nostra categoria è mutevole e passeggera, mentre quella dei proSUOl,EDI VENTO fessori, dei presidi, e di tutti i funzionari che a vario titolo appartengono al Castello, no. Dunque nell'anno accademico 1994-95 a Firenze, nella facoltà di architettura, veniva attivato il nuovo ordinamento didattico con un anno di ritardo rispetto agli altri atenei italiani (Torino, Venezia, Milano, Roma, Bari ...), per le più aspre resistenze che qui aveva incontrato e non solo da parte degli studenti che più volte nei giorni in cui•si decideva della adozione, avevano/residiato il Consiglio di facoltà, ma anche, e è questo il dato più sorprendente, da parte di quei professori, soprattutto di Storia e di Restauro, cui maggiormente sta a cuore la tradizionale f eculiarità della facoltà fiorentina: la tutela de patrimonio storico, architettonico, che la didattica del nuovo ordinamento riduce drasticamente a vantaggio delle discipline compositive. Il motore che· ha alimentato quest'ansia di cambiamento (inusuale nelle stanze del Castello) e che ha innescato un processo implacabile per cui di anno in anno gli insegnamenti del vecchio ordinamento vengono disattivati col sovrapporsi di quelli del nuovo per ovvi motivi di spazio (secondo una logica che "tutela" i nuovi iscritti e considera quelli antecedenti al 1994-95 esuberi da smaltire al più presto), è una ragione che ha un'evidenza schiacciante per i sostenitori del nuovo: consentire ai nuovi laureati una formazione che assicuri loro la libera circolazione nel mercato europeo. Per questo, l'ordinamento che regola la didattica di ogni Facoltà di Architettura deve recepire i principi generali che sono stati definiti nella Direttiva Cee 85/384. Nobile' causa, del tutto condivisibile, se non imponesse a tutti gli studenti un unico modello didattico, polarizzato sul solo indirizzo _progettuale a scapito della precedente suddivisione in quattro percorsi formativi (Progettazione dell'Architettura; Tutela e Recupero del Patrimonio Storico-Architettonico; Tecnologico; Urbanistico), che nella loro specificità garantivano, comunque, una preparazione professionale flessibile e molteplice, perché non configuravano specializzaz10ni settoriali. Allo studente si dà ora invece, la possibilità di scegliere i corsi da frequentare soltanto durante l'ultimo ciclo didattico, in prbssimità della laurea, in virtù di una visione più monolitica che omogenea del bagaglio teorico dell'architetto, che lo qualifichi pragmaticamente come progettista puro, sen~ za smancerie da "ultimo umanista" (U. Eco) o da architetto "senza muramenti" di albertiana memoria. Il fatto che l'Italia fosse l'unico paese in cui l'attenzione per la Storia e per il Restauro continuasse a mantenere un'importanza pregiudiziale nello studio e nella progettazione dell'architettura, non autorizza a considerare meno opportuno o moderno o esportabile il modello italiano, né può avallare il giudizio sulla presunta arretratezza dell'Italia relativamente alle discipline architettoniche non storiche. Se c'è un'originalità nella scuola italiana di architettura rispetto alle altre europee, questa sta proprio in ciò che il nuovo ordinamento ridimensiona, omologandosi alla Direttiva Cee, che peraltro non ha alcun valore cogente. E poi, ammesso che la didattica debba necessariamente ruotare intorno all'asse del progetto, ciò non legittima la riduzione delle discipline non compositive a una funzione puramente ancillare o di supporto ai laboratori. Anzi,
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