SUOLE DI VENTO Carmelo Argentieri, Stefano Laffi, Emiliano Morreale, Piero Pugliese, Luca Rossomando UNIVERSJTA' GLI STUDENTI NEL PALLONE Stefano Laffi In fondo vien più tristezza che rabbia quando si esce dall'università e si fanno i conti con la realtà, coi suoi rapporti di forza, la sua rapidità di mutamento. Davvero ci si chiede dov'erano puntati i monitor del "tempio dello studio e della ricerca''. in tutti que$li anni, perché questa recita collettiva a studiare e ragionare su un mondo che somiglia così poco a quello vero. Eppure forse bastava un segnale molto semplice, come leggere il giornale e rendersi conto che nulla di quanto si studiava aveva un nesso con guanto succedeva. Provare per credere: quanti sono gli studenti in grado di comprendere le "proprie" pagine (di economia, società, politica, cultura, giustizia) a partire dai propri studi? · . D'altra parte com'è possibile attraversare l'intero ciclo di esami di una facoltà di economia senza sentire nomina.re la parola fabbrica, laurearsi in lingue senza parlarle, in lettere senza che sia mai chiesto scrivere una parola? Agli studenti di architettura qualcuno spiega come funzionano gli applti? A quelli di scienza dell'informazione si dice che non ha più senso studiare linguaggi di programmazione quando ormai tutto dipende dai software applicativi, e l'unico libro di testo è il relativo manuale? Qualcuno si è premurato di avvisare gli studenti di lettere e filosofia che professioni quali quelli di insegnante e giornalista non sono più una ,erospettiva concreta di lavoro, avendo ormai raggiunto il livello di saturazione? Autoreferenziale come poche altre istituzioni, l'università si ostina a non mettersi in discussione e si auto riproduce a suon di dibattiti teorici, orgogliosa della propria incontaminazione dalla realtà. Ma che senso ha, per esempio, che nelle riviste di economia si parli solo di modelli matematici, fondati su ipotesi irrealistiche per poter far tornare i conti, come SUOLE DI VENTO se l'economia del paese non meritasse attenzione. Perché in università si promuovono gli stage a Londra sui mercati finanziari e non si favorisce la ricerca applicata allo sviluppo dell'economia del Mezzogiorno? Quanti sono i corsi di sociologia o scienze politiche dove gli studenti debbano uscire in strada e partire dall'osservazione dei fenomeni e dall'analisi della quotidianità per argomentare ipotesi interpretative? fra le migliaia di corsi esistenti, ce n'è almeno qualcuno (ad architettura, lettere, economia, ingegneria, fisica, giurisprudenza, ... ) dedicato alla tutela e valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale del paese? Perché mai la parola tossicodipendenza può non essere pronunciata per l'intero corso di studi di facoltà come medicina, sociologia, economia, giurisprudenza? C'è qualcuno che spiega nelle aule di lettere e filosofia come nasce un libro, quali mutamenti radicali stanno attraversando il mondo dell'editoria? E nelle stesse aule si dice che in Italia vengono pubblicati troppi libri, e che ormai il libro è una merce dalla vita brevissima, pochi anni e poi diventa introvabile? I laureati sul "cinema di Fellini" lo sanno che La dolce vita non c'è più, in sala non sarà visibile, distrutta al macero dal meccanismo infernale dei diritti di distribuzione, che dà due anni di vita al film e poi, se nessuno li rinnova, prevede la distribuzione fisica delle copie? Lo studente universitario è oggi una delle persone che ha meno contatti col mondo ed è paradossalmente meno tenuto ad averne. E, com'è giusto che sia, non c'è più lavoro che somigli alla facoltà della quale dovrebbe essere lo sbocco naturale. Per questo credo che l'università oggi formi prevalentemente dei disadattati sociali, dei bambini che aprono gli occhi fra i 25 e i 30 anni. È vero che l'università non deve essere la fotografia della realtà, anzi, per poterla studiare deve staccarsene e differenziarsene. Ma il suo isolamento sa più di autoreferenzialità che di esigenza metodologica, sembra più funzionale alla conservazione dell'università stessa e del suo apparato che frutto di una pratica analitica della realtà. "È il metodo che conta, l'abitudine allo studio e alla riflessione, a prescindere dai temi sui quali ci si applica": d'accordo, in parte è vero, ma non basta. Prima di tutto, se "è il metodo che conta", perché mai nessuno lo spiega agli studenti, perché non c'è un solo corso o docente che svolga questa essenziale funzione, aiutando ciascuno a trovare il "proprio
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==