La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 12 - febbraio 1996

della settimana; altri fanno "riassunti di qualunque cosa". Non mancano neppure brevi, allusive, suadenti epifanie. La solita solfa: palpitanti frammenti di vita vissuta, esili raggi di luce e di poesia contro la superficie volgarmente opaca delle cose (storie di gente che cammina "per colline tribali e portici risonanti", aspetta il treno, f>rende il treno, parla di "poemi cavallereschi", spende centocinquantamila lire e torna a Sud). Il "catalogo" è questo, in ogni caso. Popoli sconosciuti e strani e terre inventa te, descrizione di oggetti grotteschi, stucchevoli storie di monaci siriani: lirici resoconti del variopinto nulla che ci avvolge. L'Almanacco mantiene davvero quello che promette. Piccola versione tascabile - molto borghese, molto estetizzante - di una civilizzata "Via dei canti", Il. Semplice conserva il delicato charme dei ~o_erammobili inutili e graz1os1. E il "mondo"? Questa piccola, stupida, gabbia troppo nota? Forse il problema è impostato male. Roland Barthes ha osservato una volta che tutte le "mitologie piccolo-borghesi" hanno sempre un tratto in comune, un'ottusa ossessione condivisa: troppo distratte - troppo narcisiste - sono "incapaci di immaginare l'Altro". Naturalmente, /'"Almanacco" non può fare eccezione (e non la fa). Al posto dell'Altro che non c'è - di una presenza non troppo evidente, di differenze sfuggenti, di forme e di schemi di vita complicati - Il Semplice propone molto candidamente un 'altra (l'ennesima) immagine di Noi. Un'immagine in più. Il duplicato sognante e "stralunato" di un'identità sbiadita, consumata. Non c'è - sospetto - quasi niente di peggio. Niente di più inutile e irritante di questo svagato turismo della fantasia. O forse la verità è anche peggiore. Mettiamola così: la "letteratura" non salva e non compensa niente. La montagna del sale Edoardo Cicelyn Edoardo Cicelyn, giornalista e critico d'arte, dirige per "Il Mattino" il supplemento settimanale "Dentro Napoli". ♦ Mimmo Paladino, artista di fama, già un maestro, un classico per gli studiosi e gli appassionati di arte contemporanea, è una autentica scoperta per i\ pubblic~ ~ap~le~ tano. Tre interventi rn citta (fino al 17 marzo nelle Scuderie dell'Arte a Palazzo Reale e con "Camera italiana" a villa Pignatelli, mentre la "Montagna del Sale" installata a piazza del Plebiscito il 23 dicembre è stata smontata il 17 gennaio) con un dispiegamento omerico di opere di pittura e scultura che hanno combattuto e battuto sulla contemporaneità la pur poderosa e importante esposizione della collezione Farnese a Capodimonte. La "Montagna del sale", quarantacinque metri di base per dodici di altezza, trenta cavalli conficcati nelle pendici, ha spiazzato la piazza del Plebiscito. Abolita nell'opera ogni distanza concettuale tra natura e cultura (il sale è l'elemento naturale che dà senso alla struttura, eppure quei cavalli che sporgono, si infilano, si ergono sono testimoni di una devastazione - una tempesta o un terremoto?- che ha rotto l'ordine delle cose: dunque niente è più natura e non nel modo della forma da ricostruire, e solo nell'istante in cui si da a vedere), allora è qui che il discorso dell'arte si fa direttamente in pubblico. Corpo a corpo con l'immagine neoclassica della Basilica di San Francesco di Paola, la macchina dell'arte contemporanea ha manovrato la curiosità popolare e si è fatta agire dall'invadenza dei desideri metropolitani. Istinti popolari e rappresentazione politica nella piazza di Paladino, recintata e protetta da Bassolino, confliggono in una battaglia di corpi e di segni: ragazzini, ragazzi, adulti, disoccupati, studenti, vigili, volontari della protezione civile, poliziotti, delinquenti a rincorrersi sotto e sopra la Montagna ... Ultraspettacolare e supervista, la montagna in piazza ha catalizzato l'interesse ma, come è ovvio, il senso dell'opera di Paladino prolifera nella triangolazione dei luoghi e dei lavori da villa Pignatelli alle Scuderie di Palazzo Reale. Bisogna immaginarsela così: dal salotto della Riviera, nel quale l'artista colleziona il racconto immagine già documentata e ormai consolidata, ai sotterranei oscun e minacciosi delle scuderie dove Paladino riesplora le origini della sua pittura scavando nelle 'profondità di quella immagine. Qui una immensa parete tambureggiante di neri affronta i grandi quadri rossi, gialli e blu e tutto il)torno si sf argono il bianco della calce, i pane, il bronzo e l'argento. Tutto ciò che prende forma trova luce specchiandosi nel buio assoluto del segno. Ma, e qui sta l'assoluta originalità di Paladino, la vita della forma non è arroganza creatrice, irresponsabile messa in scena. Il linguaggio più astratto e concettuale a cui la grande arte contemporanea ci ha abituato nell'opera paladiniana riesce sempre a coniugarsi con i segni e i corpi della storia e le forme della terra. Laddove il segno nudo e crudo sembra esporre se stesso e le sue oscure virtù linguistiche? tanto p_iùè chiar_oche non s1tratta dt un esperimento o di un artificio, ma sempre di un modo di abitare lo spazio e di accamparsi sul terntodo. In questa dialettica di rimandi e rispecchiamenti delle cose comuni, prese alla vita quotidiana e spostate nel campo concettuale e astratto del linguaggio artistico, succede con Paladino anche il contrario. Accade cioè che i segni più colti, raffinati, concettuali e rarefatti del linguag- 'i!JQ_

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