non sarà facile congedarlo, assiso com'è sui poteri reali e non sui poteri, oggi attenuati e quasi nominalistici, del Parlamento e dello stesso Capo dello Stato. Detto questo, non mi resta che salutarvi caloro-. samente ed au$urare a tutti, di qualunque opinione siate, un felice e fecondo confronto che aiuti ciascuno alla verifica delle proprie tesi. .♦ Crisi, padroni, sinistra Rinaldo Gianola La crisi politica e istituzionale nel nostro Paese non può essere letta come un sempli'ce scontro, peraltro di modesto interesse, tra D' Alema e Berlusconi, tra il Polo e l'Ulivo, tra i sostenitori del presidenzialismo e i tifosi del parlamento. Va, invece, interpretata per quello che davvero è: il conflitto, lo sbandamento di poteri contrappos.ti, soprattutto economici e finanziari, che dalla fine della stagione della grande consociazione sotto l'ala protettrice della Dc, non hanno ancora trovato interlocutori credibili e fidati, capaci di rappresentarne e tutelarne gli interessi a livello politico. E per iniziare a orientarsi nel poco attraente e confuso mondo della politica bisognerebbe chiamare almeno le cose col loro nome. Che cosa è stato l'inutile e ambizioso tentativo di Antonio Maccanico se non il progetto della grande impresa di andare direttamente al governo con un suo uomo? Altro che un esecutivo per finalizzare le riforme costituzionali, introdurre il cosiddetto semi-presidenzialismo, modificare il sistema elettorale, rendere più semplice la formazione delle maggioranze. Quello che si andava formando, e che è saltato · n~n p~r nobili quest(?ni di pnnc1p10 ma per ben p1u consistenti problemi di portafoglio (i ministeri chiave, il salvataggio della Fininvest, l'amnistia per gli inquisiti di Mani pulite), era il governo della Fiat e di Mediobanca, gli unici veri poteri già governati da un'oligarchia che se ne frega cd-i costituzioni, assemblee, voti, magg10ranze. Il capitale italiano ha bisogno di uomini di totale fiducia e di grande capacità di navigazione nei man procellosi della politica. Per qualche tempo, molto breve per la verità, si era illuso che potesse essere Silvio Berlusconoi l'uomo giusto, ma non è.stato così. Troppo rissoso, impresentabile all'estero, avvolto da dubbi sulla creazione del ]?rimo miliardo e da troppe 111chieste giudiziarie. Poi è toccato a Lamberto Dini, un tecnico che ha presto compreso l'arte dorotea del governo, ma giocava troppo da solo, voleva addirittura arginare le ambizioni di Enrico Cuccia e del grande capitale su alcuni bocconi prelibati dell' economia pubblica, come la privatizzazione delle telecomunicazioni e dell'energia elettrica. Poi è venuto il turno di Maccanico, già presidente di Mediobanca, un fedelissimo dei salotti, e domani chissà a chi toccherà. L'ascesa di personaggi di questo genere ben rappresenta la crescente discrasia tra la turbolenta, inefficiente politica, e la voracità, dunque la prevalenza, degli interessi del capitale privato. Quello che emerge limpidamente dall'ultima crisi politica è che le ragioni e il consenso dell'esistenza di un governo non si trovano sull'ampia base parlamentare di cui può o meno disporre, ma nell'investitura ricevuta dai poteri extra-parlamentari: quelli economici, finanziari dei Cuccia e degli A~nelli che oggi, dopo Maccamco, pensano già al futuro cavallo da lanciare. La crisi italiana, più che politica e istituzionale, è di potere. La grande impresa, almeno nelle sue espressioni che contano, fronteggia con difficoltà e con crescente timore sfide assolutamente nuove e dall'esito incerto, rappresentate dalla globalizzazione dei mercati, dalla feroce competitività di potenze economiche emergenti, e vede esaurirsi il magico volano della svalutazione della lira, che dal 1992 a oggi ha consentito di recuperare terreno e di nascondere i ritardi di internazionalizzazione e innovazione delle imprese. Il capitalismo privato ha un'assoluta necessità di essere protetto almeno sul fronte interno, di poter contare su un governo comprensivo, ca_pacedi tenere a bada i sindacati, controlare il conflitto sociale e privatizzare i gioielli dell'economia pubblica senza ritardi e a prezzi di favore come è già successo con le banche pubbliche Comit e Credit. In questo contesto la natura stessa del presunto dibattito sulle riforme costituzionali è puramente tecnica ed esclusivamente funzionale a un obiettivo: garantire maggioranze e governi forti, duraturi, indiscutibili. Le formule come il semipresidenzialismo o il maggioritario puro sono delle semplici tecnicalità per definire le nuove forme del potere che devono, nella logica della grande impresa, essere identificate in una figura istituzionale "forte", sia un presidente della Repubbli.::a con ampi poteri o un esecutivo il più possibile sganciato dal parlamento, svincolato da controlli e garanzie. C'è. in questa vocazione maggioritaria a ogni costo, falsamente alimentata dall'esigenza della governabilità, la filosofia del "fargliela pagare": alle sinistre, alle oppposizioni sociali, ai non allineati, a quelli che non ritengono il mercato un totem indiscutibile al quale sacrificare tutto. Si pensi all'incongruenza di un confronto - peraltro limitato a Fini, Berlusconi, D' Alema, a un sessantenne professore toscano che da vent'anni vive a New York, a un paio di direttori di quotidiani e tv - come quello sul presidenzialismo e sui poteri del parlamento. In Francia ci invidiano, come ha scritto "Le Monde", la forza del nostro parlamento, vera garanzia a pericolose derive. In Gran Bretagna si sta pensando - l'ha proposto l'eversivo "Economist" mentre il leader laburista Tony Blair, tanto apprezzato dalla nostra sinistra per il suo modernismo, vuole proporre un referendum ~ alla revisione del sistema elettorale maggioritario basato sul turno unico, perché non più adatto a rappresentare democraticamente la complessità della società inglese, e che costringe, tanto per fare un esempio, un partito come il liberale, stimato di circa un quinto dei consensi Y.QQ
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