La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 9 - novembre 1995

TEATRO VOCAZIONE E PROFESSIONE Gabriele Vacis .A me sembra che questo equilibrio si vada faticosamente conquistando. È come se le generazioni precedenti alla nostra si fossero occupate di smontare il giocattolo per poi pretendere che l'arte fosse quello. Smontare il giocattolo, un atteggiamento analit.ico,concettuale. Io ho sempre pensato che lo smontaggio del giocattolo non è l'arte, però le due cose so- . no in relazione. Un'opera d'arte non può essere solo decifrata. Io provo da sempre una certa insofferenza quando uno spettacolo, un libro, mi chiedono un atteggiamento come quello che ti chiede la Settimana Enigmistica, come risolvere una sciarada.Mi piace quando questa è una componente della fruizione dell'opera d'arte. La risoluzione ael rebus, però deve· produrre emozione, sentimenti. Insomma, moltiplicarne il senso. Questò significa che l'atteggiamento di scomposizione del linguaggio ce l'abbiamo acldosso,però credo che oggi possiamo rior~anizzarlo in comunicazione. , Qualche giorno fa alla "Holden" abbiamo fatto questo esercizio: abbiamo sezionato una canzone di Tom Waits, ne abbiamo individuato i ritm,i, i toni e i volumi. Quindi ognuno dei ragazzi ha reinventato i1 testo sugli stessi andamenti musicali. Uno dei ragazzi ha scritto una cosa molto sdolcinata. Strano, perché lui è uno degli allievipiù rigorosi, più preparati. Gli abbiamo chiesto se era soddisfatto aeI suo lavoro: "... Mi rendo conto che ho fatto una cosa molto sdolcinata" ha risposto "però in fondo non mi dispiace mica". Ci siamo stupiti del peso che per loro ha la partecipazione emotiva nella fruizione del prodotto . artistico. Però è stupefacente come riescano nel medesimo tempo. ad avere anche una profonda capacità critica. Come riescano a comprendere entrambe le cose, a spaziare senza pregiudizi, in libertà. Alla "Paolo Grassi" a Milano io lavoro da due anni con una classe del corso attori. Con loro ho potuto approfondire una serie di discorsi. Ultimamente ho ricevuto da loro delle critiche: "Il tuo teatro è musica e suone( mi hanno detto "molto menQapprofondimento del testo". Hanno ragione. Hanno capito che in questo momento· sto proprio lavorando a questo approfondimento, che questo è il passo successivo deJ mio l_avoro.Quindì_questa voglia di_f~u~r~ emotivamente non nn sembra superf1c1ahta ma un'esigenza di approfondimento diverso. Da quando insegno alla Civica scuola d'arte drammatica "Paolo Grassi" di Milano mi capita spesso di discutere sul"significato B bliot la ( ·no B r n ,O delle _scuoledi ~e:itro._Q~asisempre a p~ovocarm1 sono am1c1,registi o atton scett1c1sul1' opportu1ùtà dell'esistenza stessa delle scuole di teatro. Alla base di questo scetticismo c'è la convinzione che l'arte dell'attore non si può insegnare. Del resto la disputa tra chi ritiene che attori si nasce e quindi le scuole non servono a chi sostiene che invece attori si di- .venta, quindi servono istituti che li formino, è antica quanto il teatro e tutte le discussioni in propo~i!o s~mbrano discendere da questo ceppo ongmano. Io stesso non ho seguito un percorso di formazione istituzionale. Alla fine degli anni Settanta, quando ho cominciato a fare teatro, l'idea di una scuola non mi sfiorava nemmeno, la scuola era il simbolo stesso della fossilizza- .zione convenzionale, mentre per me fare teatro era proprio la rottura di ogni schema convenzionale. Infatti quando Renato Palazzi, il direttore della "Paolo Grassi", mi propose di tenere un seminario agli allievi della scuola rimasi stupito. Dovrei essere insegnante, io che non sono mai stato allievo? Gli attori con cui lavoro abitual~ente sono anche le persone con · cui mi sono formato, per noi produzione e formazione sono semr,re andati di pari passo: come si fa a separare il momento dell'apprendimento di una tecnica da quello della sua ap1 plicazione pratica?"Come si può imparare una tecnica anziché produrla? Se poi parliamo del teatro, la forma dì com4nicazione più artigianale e meno industrializzabile... Alla proposta di insegnare alla scuola risposi che al massimo avrei potuto fare uno spettacolo. Così mi'trovai di fronte à un gruppo di ragazzi che indubbiamente possedevano una serie di tecniche, conoscevano la dizione corretta della lingua e avevano un buon allenamento alle pratiche gestuali, dal mimo alla danza. Io ero abituato in un altro modo: quando cominciamo a fare uno spettacolo nuovo, io e gli attori ci dedichiamo allo studio di tecniche spècifiche in relazione a quello che ci richiede l'argomento dello spettacolo. Nòn necessariamente queste devono essere pregiudizialmente la dizione, il mimo o la danza: avevo appena fatto uno spettacolo in cui avevamo nuotato moltissimo perché in scena si costruiva una piscina, oppure lo studio anche molto pratico dell'arte dei giardini ci occupò per diversi mesi alla preparazione di un altro srettacolo. Questo affacciarcia conoscenze differenziate ci permette ancora oggi di inventare spettacolo dopo srettaçolo la dizione della lingua ma anche, i che mi pare irrinunciabile, la lingua stessa. Lo stesso discorso vale per la gestualità o _perl'organizzazione dello spazio. Incominciando a lavorare alla scuola mi rendevo conto che i ragazzi della classe·che mi fu assegnata conoscevano i miei spettacoli, ma ovviamente non sapevano come avevo fatto a farli. Mi accòrsi in quell'occasione che neanch'io'io sapevo. O meglio non mi er<?mai interrogato sull'argomento, semplicemente facevo. Con i miei compagni del "Laboratorio Teatro Settimo" oltre a inventare lo spettacolo mi ero sempre inventato anche il modo di farlo: avevano sempre dovuto inventarci il modo di parlare e di muoverci in scena, andarci a cercare gli oggetti, i costumi e capire cosa farne, come farli vivere. Con gli allievi della scuola iniziai a fare lo stesso. Nel corso del lavoro mi resi conto che qualcosa era possibile insegnare, era quello che sapevo: non come recitare ma come inventarsi un modo di reSUOLE DI VENTO

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