La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 9 - novembre 1995

LA CJITA' Vukovar, Mostar, Sarajevo ... Assassinio della città Bogdan Bogdanovic Bogdan Bogdanovic, architetto, è stato sindaco di Belgrado dal 1982 al 1986. Questo testo è ripreso dal n.64, ottobre-dicembre 1995, di "Spazio e società", larivista diretta da Giancarlo De Carlo. ♦ Per quanto io mi sforzi di esaminare le anormalità della nostra guerra non riesco a capire perché la strategia militare ponga come uno dei suoi obiettivi princiJ,nli - o addirittura l'obiettivo principale - la distruzione delle città. Prima o poi il mondo civilizzato si disinteresserà con una scrollata di spalle delle nostre carneficine interne. Che altro potrebbe fare? Ma non dimenticherà mai come abbiamo distrutto le nostre città. Noi, noi serbi, saremo ricordati come i massacratori di città, come i nuovi Unni. È comprensibile l'orrore che questo suscita nell'Occidente, che per secoli ha associato i concetti di "città" e di civiltà, anche a livello etimologico. Perciò non può che giudicare la distruzione delle città una deliberata, cruda negazione dei valori più alti della civiltà. Ciò che rende la situazione ancora più mostruosa è che le città colpite sono splendide: Osj.ek, Vukovar, Zadar e poi Mostar e Sarajevo. L'attacco a Dubrovnik - lo dico con orrore, ma lo devo dire - era diretto volutamente contro qualcosa di bellezza straordinaria, perfino simbolica. Era l'attacco di un pazzo che getta vetriolo sulla faccia di una bella donna e le promette in cambio una faccia più bella. Che non si tratti della furia inconsciente di un selvaggio appare chiaro dall'attuale progetto di ricostruire la Vukovar barocca in uno stile serbo-bizantino inesistente, il più grosso falso architettonico che si possa immaginare. Indizio di motivi estremamente ambigui. Se i nostri teologi fossero un po' più fantasiosi, potrei interpretare la loro visione di una Vukovar serbo-bizantina come parabola di una città celeste che appare sulla terra con il segno provvisorio e tangibile della Serbia celeste a venire. Ma se consideriamo più prosaicamente l'idea di costringere la Vukovar deliberatamente distrutta a cambiare faccia, vediamo che si tratta semplicemente di una barbara fantasia militare, come lo fu quella di radere al suolo la città antica di Varsavia e di erigere sulle sue ceneri una Varsavia teutonica. Per anni ho elaborato la tesi che una delle forze motrici alla base della crescita e del declino della civiltà è l'eterna lotta manichea tra chi ama la città e chi la odia, una lotta condotta in ogni nazione, ogni cultura, ogni individuo. Era diventata, per me, una vera ossessione. I miei studenti si divertivano a sentirmi partire su questo argomento, ma anche sorridevano tra loro come per dire "Ci risiamo!". E poi è arrivato il momento in cui mi sono accorto con orrore che questo era la nostra realtà quotidiana. Io associo all'assassinio rituale vero e proprio l'assassinio rituale della città. E vedo gli assassini della città in carne e ossa. Illustrano perfettamente le storie che raccontano a scuola la storia del buon pastore e della cattiva città, di Sodoma e Gomorra, del crollo delle mura di Gerico, dell'astuzia di Epeo e del suo cavallo di Troia, della maledizione del Corano: "tutte le città del mondo saranno distrutte e i peccatori che le abitano trasformati in scimmie". I grandi signori della distruzione d'oggi si compiacciono di esporre i loro motivi: ne sono orgogliosi. In fondo, da tempo immemorabile le città sono state rase al suolo in nome delle fedi più pure, dei più alti principi morali, religiosi, di classe, razziali. Gli spregiatori e i distruttori di città non sono soltanto nei libri: sono nella nostra vita. Da quali abissi di un perverso spirito nazionale sorgono e dove vogliono arrivare? Su quali confusi principi basano le loro opinioni? Quali immagini li ossessionano e in quale macabro libro le trovano? Chiaramente, in libri che non hanno nulla a che fare con la storia. Perché il selvaggio fatica a immaginare che qualcuno r,ossa essere esistito prima di ui, la sua idea di causa e effetto è primitiva, monolitica, specie quando prende forma durante le chiacchiere da bar. Forse, in definitiva, i fenomeni che sto cercando di descrivere sono impossibili da definire. Perciò prego i lettori di accettare questi pensieri come un tentativo infelice di associare perfezione e intuito e di arrivare alle radici dell'antica, archetipa paura della città del selvaggio. Tuttavia, mentre nei tempi antichi questa era "paura sacra", qumdi soggetta a regole e limiti, oggi esprime le pretese incontrollate della mentalità più spregevole. Ciò che intuisco, nel profondo dell'anima dominata dal panico dei distruttori di città, è un'ostilità perversa contro tutto ciò che è urbano, che è civile, cioè contro un complesso insieme semantico che comprende spritualità, moralità, lingua, gusto, stile. Dal XIV secolo in poi, in quasi tutte le lingue europee "urbanità" sta a significare dignità, raffinatezza, unione di pensiero e parola, di parola e sentimento, di sentimento e azione. Chi no'n riesce ad adeguarsi a questi concetti trova più facile sbarazzarsene del tutto. Il destino di Vukovar, Mostar e del Bas carsija (il vecchio centro turco) di Sarajevo promette male per il futuro di Belgrado. No, non temo orde straniere sotto le mura di Kalemegdan (la fortezza· turca che domina Belgrado); ·triste a dirsi, temo piuttosto i nostrani signori della distruzione. Le città non cadono soltanto materialmente, sotto pressioni esterne, ma cadono spiritualmente, dall'interno, ed è questo che accade più spesso. I nuovi con9.uistatori ci costrin~eranno a riconoscerli ad armi puntate. Con la lunga consuetudine, nella storia dei Balcani, delle

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