interrogati sono sempre e soltanto gli alunni, i quali a loro volta non possono far domande né dare risposte non richieste (o nei modi e nei termini richiesti). Una scuola, dunque, che resta fondamentalmente repressiva in primo luogo perché soffoca la curiosità: "alla scuola non si rivolgono domande. Appena apri la bocca, mette voti". Meglio tacere, allora, a scanso di guai. Tale autoritarismo (quasi sempre privo di autorità) emerge soprattutto da certe "metaforè dell'orrore" tipiche del linguaggio scolastico. Bocciare suggerisce l'idea di un alunno spazzato via da un colpo di boccia che gli rotola sopra. Respingere evoca invece nemici all'assalto oa ricacciare indietro, assedianti da tener fuori delle mura. E addirittura peggiori sono gli eufemismi, le pietose (e proprio per questo impietose) circonlocuzioni burocratiche. "Una volta bisognerà schedare tutte le metafore studentesche in uso lungo la penisola per dire la violenza della scuola", scrive Starnane. Certo, le parole sono pietre, ma non è solo a livello linguistico che troviamo la violenza: "La scuola della Repubblica era - è - una scuola classista che proprio nel suo esplicito rivolgersi ai capaci e ai meritevoli, riproduceva - riproduce - la composizione di classe". È un linguaggio vecchio, quello che usa con rabbia Starnane. Un linguaggio che oggi si definirebbe vetero-marxista. Ma non è la scuola a essere invece vetero-classista? Non sta proprio qui il · problema, nel non aver saputo/voluto rimuovere i dislivelli, le disuguaglianze, gli ostacoli di cui parla (inascoltata, inattuata) la Costituzione? La scuola di massa non ha risolto in senso democratico la q_uestione che potremmo definire delle impan opportunità. Sforna titoli a cui non corrispondono posti di lavoro, creando perciò disillusione e astio tra i giovani, che percepiscono, incattivendosi, di essere stati traditi: "L'istruzione di massa prod.uce un'intelligenza marginalizzata che si sente ingannata". Con sperpero e scandalo, fornisce "competenze inutilizzate che il tempo inevitabilmente atrofizzerà". L'iter scolastico si traduce così in "un penoso tirocinio verso il nulla". Da cui inevitabilmente verrà fuori nichilismo: un acconsentire protestando, un protestare acconsentendo; un ribellismo parsimonioso, svogliato, disilluso, privo di tensioni ideali. Ma è poi così diversa la situazione odierna dal passato prossimo o remoto? Non tanto. Starnone porta alcuni esempi tra le sue disparate letture: Il manuale del perfetto f rofessore del 1921 e Gli inse~nanti bocciati de 1957. Le analogie sono inquietanti. Sembra che la scuola sia rimasta immobile, una specie di eterna, indistruttibile macchina celibe: istituzione autarchica che si autolegittima e autoperpetua. "Quando le somiglianze saltano agli occhi più delle differenze, vuol dire che nessun problema vero è stato mai affrontato e risolto", conclude Starnone. Né il singolo può mutare sostanzialmente questo stato di cose consolidato da una prassi secolare: "Non sono convinto che, secondo un vecchio luogo comune, se sei un buon insegnante fai una buona scuola. È vero piuttosto che la scuola, accettandoti, si fa lentamente accettare e che l'aspirante buon insegnante si piega alla sua logica, alle sue ragioni, alle sue connivenze, celebrandone per amore o per· forza i riti collaudati". Attenzione, anzi, a certi buoni insegnanti, a quelli che continuamente H1l [1 n spiattellano le loro competenze, la loro profess10nalità, il loro efficientismo. Sono i più terribili. Starnone ci regala alcuni efficaci ritratti di questi tecnici SJ?ecializzatissimi, mai sfiorati dal dubbio, mai lambiti dall'insuccesso, mai disorientati. Sono dialoghi (anzi, quasi monologhi) registrati dal "vivo" che c1 mostrano, come in rapide commedie di poche battute, il furore di questi perfetti professori superaggior- ·nati, "iperfocali", convinti di possedere 11metodo e il merito. Si potrebbe dire che la loro scuola è una scatola senza buchi, dove le domande morirebbero d'asfissia, anzi non potrebbero neppure entrare perché la scatola ·è ermetica, non prevede nemmeno una fessura per imbucare le lettere. Una scuola tutta di risposte. Secche e precise, che non ammettono repliche. _ Una scatola/scuola simile se la costruiscono anche i fautori di un insegnamento.asettico, spassionato ed obiettivo: una buona spie~azione, alcune interrogazioni periodiche, un giudizio tecnico senza inutili tormenti e ripensamenti. Starno ne semina inv,ece incertezze. Avanza seri dubbi sulla validità di certi raffazzonati corsi d'aggiornamento, fustiga i colleghi imbelli e i missionari, smitizza l'onnipotenza della programmazione ferrea (i migliori momenti scolastici, dice, sono spesso casuali, senza capo né coda), esprime il proprio intimo e scabroso .disagio per l'atto della valutazione, denun•cia le incongruenze di sistemi di valutazione (alfabetici, numerici o espressi in giudizi esoterici) che confermano tutti la medesima cultura di patetici pesi e contrappesi, lassismi e rigorismi altrettanto umorali, aleatori e confutabili. Che non è solo, si badi, cultura dei docenti, ché anche le famiglie concorrono a mantenere in vita un sistema che separi accuratamente i sommersi dai salvati: "Il bisogno di pagelle è anche un bisogno di gerarchia. C'è paura della miseria. C'è xenofobia, c'è razzismo capillarmente diffuso. Ciò che sta nel fondo vuole venire a galla, nessuno sa stare più al suo posto. Un potere stabilisca, per favore, che noi e i nostri figli siamo migliori degli altri". Il paradosso schizofrenico della nostra scuola è questa sua inconciliabile ambiguità di essere di massa e di assorbire dunque inevitabilmente la cultura egocentrica dei mass-media, della società della SJ?ettacolarizzazione to- . tale, dei miti dell'arrivismo, del carrierismo, del successo, della fama, dell'intrattenimento. Alla materia come all'insegnante si richiede allora di essere piacevoli, divertenti: "È senso comune, insomma, tra gli alunni, nelle loro famiglie, che una materia e il suo insegnamento siano, come ogni altra cosa, spettacolo nel teatrino dell'aula. Se lo show non funziona, ecco che non funziona neanche lo studio, neanche l'apprendimento". L'insegnante si tramuta allora sempre più spesso in un intrattenitore, un animatore, che affida alla seduzione, alla fascinazione, a modelli televisivi la sua capacità di coinvolgere nel proçe~so di al?prendimento i suoi alunni. Starnone ci descnve con pochi rapidi tratti satirici la nuova tipologia del docente entertainer: quello che travasa nel lavoro scolastico i propri hobby, quello che, frustrato dal tran tran, dà sfogo alle proprie ambizioni artistiche, quello che cerca di scacciare il grigiore della lezione divertendo in primo luogo se stesso. Tutti agareggiare con la società dello spettacolo. Tutti in qualche modo - compresi gli alternativi e i
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