BAMBINI ZINGARI A SCUOLA Ana Maria Gomes Ana Maria Gomes, pedagogista, sta ultimando un dottorato di ricercapressoil Dipartimento di Scienze dell'Educazionedell'Universitàdi Bolognae si occupa da anni di scolarizzazionedei gruppiminoritari. ♦ I bambini zingari: come presentarli alla scuola Quando ho conosciuto per la prima volta dei bambini zingari a Bologna, ero in un ristorante e due ragazzine erano venute al mio tavolo per vendere dei fiori. Ero in compagnia di un amico che doveva partire subito dopo cena. Le ragazzine erano entrate nel ristorante proprio nel momento in cui stavamo aspettanclo il conto e subito dopo il mio amico ha chiamato un taxi per andare in stazione. Ci siamo salutati davanti al ristorante, lui è salito sul taxi ed io stavo per avviarmi a casa a piedi. Le due ragazzine hanno assistito a quest'ultima scena e mi hanno domandato perché lui mi avesse lasciata lì. Ho risposto che il mio amico doveva prendere il treno perché abitava in un'altra città. Non sembrava una risposta convincente: continuavano a chiedermi come mai mi aveva lasciata lì da sola. Abbiamo iniziato a chiacchierare e le ho seguite nel giro che facevano per alcuni ristoranti. Mi incuriosiva la disinvoltura di queste ragazze e allo stesso tempo l'evidente scarsità delle loro risposte per gestire le situazioni nelle quali si trovavano: erano bambine zingare slave (più tardi ho saputo che erano Rom, del gruppo xoranè) e parlavano molto poco l'italiano. Ciononostante, contrattavano la vendita dei fiori, osservavano la gente nei ristoranti, facevano delle domande su quanto vedevano, inclusa la mia stessa situazione. E hanno subito espresso la richiesta che insegnassi loro l'italiano. Sono ritbrnata più volte a trovare queste bambine per le strade del centro della città nelle ore serali. All'epoca lavoravo sulla tematica dei bambini di strada in Brasile e, oltre all'interesse che loro di per sé mi hanno suscitato, mi sembrava che c1 fossero delle similitudini rispetto ai bambini che conoscevo in Brasile, immersi anche loro in quel grande e informale mercato di lavoro che è la strada delle grandi metropoli. La frequentazione nella strada (oltre ali' abitudine di pensare ai bambini sempre sullo sfondo educativo, triste vizio di chi ha sempre lavorato nella e attorno alla scuola) mi ha portato a ipotizzare un'attività che cercasse d1aggiungere alle percezioni che queste bambine avevano della città altre percezioni ed espeblo l n , rienze alle quali non partecipavano. Le loro esperienze permettevano una conoscenza del tutto particolare del mondo urbano se la paragoniamo alle esperienze e conoscenze che di solito associamo al vissuto urbano dei bambini. Tanto per cominciare, conoscevano il campo-sosta dove abitavano (che è una realtà abitativa ben diversa da quella dei bambini che vivono in appartamenti e case) e conoscevano le strade del centro come luogo di lavoro. L'idea iniziale. era di portarle ne~li spazi di socializzazione alternativi che la città offriva, rivolti in specifico ai bambini, come ad esempio le ludoteche, in modo da cominciare a renderle partecipi di spazi sociali pensati per i bambini presenti nella città. L'idea non ha suscitato da parte loro una grande curiosità - anche perché la logica che ha portato all'esistenza stessa di questi spazi alternativi non è del tutto trasparente ai cittadini non addetti ai lavori. Queste bambine mi chiedevano invece di accompa- .gnarle a giocare nel parco vicino al campo-sosta. Da sole non potevano, non si sentivano a loro agio per farlo. Quindi trovare spazi ludici alternativi era anche un loro interesse dichiarato. Il comportamento di queste bambine mi sembrava molto interessante: lo percepivo molto maturo, mi dava l'impressione che fossero troppo adulte per la loro età; però c'era sempre un qualche aspetto che indicava dei limiti, dei riferimenti che caratterizzavano la loro condizione di bambine, inserite dentro un sistema di contatti che regolava le loro attività proprio perché erano troppo piccole per farlo da sole. Ad esem_pio,quando ci trovavamo per strada, spesso m1 offrivano il caffé. Allora si entrava in un bar ed erano loro a ordinare. La prima volta ho domandato se non lo volevano anche loro: no, perché non va bene per i bambini bere il caffé. Poi mi davano suggerimenti sugli orari migliori per trovarci in strada poiché c'erano alcuni giorni e orari in cui il lavoro era più pressante e non si poteva perdere tempo m chiacchiere. Alla proposta di andare di ·pomeriggio alle ludoteche, mi hanno detto che avrei dovuto chiedere il permesso ai loro genitori. Erano comportamenti che, se considerati alla luce dell'immaginario dominante nella storia italiana sull'infanzia, non risultavano molto coerenti. D'altra parte, tali comportamenti non erano in sintonia con quanto sapevo sulla vita dei bambini di strada in Brasile. Per questi, la presenza in strada può volere dire (anche se non sempre) un indebolimento dei vincoli con la famiglia. Nei tentativi di c;ipire l'universo culturale dei bambini di strada, spesso si arriva alla problematica delle immigrazioni interne in Brasile, alla destrutturazione dell'economia nella campagna dove è già penetrata la logica della vendita della propria forza lavoro. In quest'ottica, lo spostamento verso la grande città è un tentativo di accedere a migliori condizioni di inserimento nel mercato di lavoro e partecipazione al benessere sociale. Ciò porta ad un processo di sradicamento culturale: la gestione dell'ambiente urbano si rivela un'impresa difficile e _pesanteper molte famiglie di origine rurale. Richiamo qui questa realtà soltanto per creare un'immagine di contrasto che forse può essere utile: l'universo esperienziale e culturale dei bambini e bambine rom e sinti 1 che ho iniziato a conoscere allora era molto diverso, nel suo disegno complessivo e soprat- :ì_C.fJ..Ql
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