la competizione globale tra aree geografiche fa emergere sistemi economici dominati dal dumping della manodopera. Questa tendenza erovoca la scomparsa di tradizionali settori produttivi. Jeremy Rifkin, economista americano e autore de The end of the work che sarà presto pubblicato anche in Italia, sostiene che "robots e computers stanno sostituendo intere categorie del lavoro: negli anni Sessanta i blue-collar (gli operai) rappresentavano il 33% della forza lavoro mondiale, adesso sono il 17% e nel 2005 saranno solo il 2% ." È un fenomeno inarrestabile, con pesanti ricadute sociali ed economiche. Lo stesso Rifkin sostiene che l'unica strada per fronteggiare questa situazione è la riduzione dell'orario di lavoro a trenta ore settimanali in tutti i Paesi da realizzare entro dieci anni. Una formula coraggiosa, forse troppo per i governi dei Paesi occidentali. E probabilmente ha ragione il settimanale The Economist quando constata: "La tecnologia sta distruggendo milioni di posti di lavoro, la speranza è che possa crearne più di quanti ne distrugga, ma sarà così?". Un'autorevole pubblicazione americana, la rivista Fortune, invita a non farsi illusioni: "Mentre ci avviciniamo al 2000 è probabile che la metà di noi lavorerà sessanta ore alla settimana e l'altra metà sarà disoccupato." Pro e rio negli Stati Uniti, dove l'innovazione dei processi ha avuto effetti clamorosi sui livelli di produttività e dei costi, si guarda con preoccupazione la futuro equilibrio tra economia e lavoro, e nessuno si fa soverchie illusioni guardando ai milioni di posti creati dalla recente ripresa economica. La retorica e la propaganda confindustriale, che trova spesso un ingiustificato consenso in ambienti sindacali e della sinistra italiana, attribuiscono alla flessibilità, alla mobilità, alla totale mancanza di re~ole, e quindi di diritti, il mento della creazione di nuova occupazione negli Usa. In realtà basta leggersi 9.ualche analisi e pochissimi libri per comprendere come quei posti siano in larghissima misura di bassissimo livello professionale, dequalificati, sottopagati, a tempo parziale. Se John Fitzgerald Kennedy, all'inizio degli anni Sessanta, di fronte alle preoc- · cupazioni per i primi effetti sull'occupazione indotti dalla rivoluzione tecnologica, poteva consolarsi con l'ottimismo americano - "Se gli uomini hanno la capacità di inventare nuove macchine che creano disoccupati, avranno anche la capacità di riportare questi uomini al lavoro" -, oggi diventa molto difficile aderire fideisticamente all'ineluttabile progresso sociale ed econo~ mico. È problematico credere ai messaggi di coloro che il compianto Federico Caffè chiamava "i nostalgici della mano invisibile", sostenitori dei poteri taumaturgici del mercato, che in realtà non esistono. Non ci sono miracoli in giro. La realtà italiana, per tornare a casa nostra, è che nel 1994 la produzione industriale è cresciuta del 4,5% e l'occupazione è calata ancora dell'l %. Fanno quasi tenerezza gli annunci di questi giorni che indicano, nei primi mesi del '95, la creazione di qualche migliaio di posti di lavoro. Gli strumenti per creare occupazione, diffusa se non piena, nel nuovo contesto economico e comf etitivo sono molto diversi da passato, richiedono la capacità di pensare al di fuori di schemi e pregiudizi. Ad esempio puntando sulla riduzione dell'orario di lavoro: Come hanno fatto in Germania alla Volkswagen, come pensano 1n Francia, come sperimentano altrove. La congiuntura economica pone al nostro Paese aspetti paradossali. Mentre si discetta della relazione tra tecnologia e lavoro, anzi tra innovazione e disoccupazione, !'Olivetti, azienda di grande tecnologia perennemente in crisi sotto la guida di Carlo De Benedetti, annuncia il taglio di altri 5.000 posti di lavoro, dopo averne cancellati 25.000 in quattro anni. Il neo-luddismo è una filosofia imprenditoriale: distrugge i posti di lavoro, anziché le macchine. ♦
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