pure che era buona e che bisogna però realizzarla davvero. Ma non credo che andremo molto avanti, su questa strada. Non credo che una politica della civiltà possa essere fatta a partire da un'utopia e da una religione. Fondare invece una politica delle civiltà sul realismo vuol dire partire da ciò che esiste e svi1upparne le potenzialità. E oggi le potenzialità liberatrici si trovano nelle trasformazioni dei rapporti sociali legati alla trasformazione del lavoro. Si lavora meno, quindi bisogna trovare il modo per lavorare tutti e vivere meglio. Bisogna trasformare i rapporti tra popolazione e natura, perché oggi sappiamo che lo sviluppo capitalistico ha non solo limiti sociali ma anche naturali. Poi vanno trasformati i rapporti tra gli individui, tra i sessi. Una delle grandi rivoluzioni del secolo non è stata tanto quella russa, che pure è importante, ma, oltre a quella dell'atomo, soprattutto quella dei rapporti tra i sessi..." In questa limpida formulazione di un problema grande e decisivo c'è l'indicazione di una strada che del resto chi frequenta la nuova frontiera dei conflitti sociali non può non avere più o meno confusamente già intravisto. Su quella frontiera infatti si incontrano problemi del futuro e risposte del passato, residui di ciò che era e presagi di ciò che sarà, pericoli radicali e potenzialità di progresso. E il possibile e l'impossibile della politica vengono già ora quotidianamente interrogati e sfidati. La risposta, se c'è, non può che nascere imparando ad ascoltare quelle esperienze, quell'intreccio di pratiche, c~>n~scenze, pro_getti, i_spiraziom e vocazioni, a ragionare sulle idee grandi e piccole che mettono in discussione. Poi può darsi che il mondo cambi per conto suo, che la commedia della politica non riesca a star dietro alla violenza delle trasformazioni reali. Ma se c'è una speranza sta nella capacità collettiva di pensare e agire nel mondo; che è ciò che dobbiamo chiamare politica. ♦ Il neo-luddismo degli imprenditori Rinaldo Gianola "Ormai le officinesonoridotte a manovalanza, luoghiper invalidi e renitenti,paesaggio,figura e rumore de/l'archeolo~iaindustria/e,senon un vecchioarengo dove ancorasi credecheun bullone, l'elettricitào un torniosiano agenti dellarivoluzione. " Paolo Volponi Mezzo secolo fa Norbert Weiner, pioniere dell'informatica, sosteneva che la nuova tecnologia avrebbe distrutto tanti posti di lavoro da rendere la Grande Depressione degli anni Trenta simile a un banale picnic. Quella previsione catastrofica è ritornata di moda come un'attuale minaccia in questi mesi in cui economisti e politici si interrogano sullo strano fenomeno della crescita economica non più accompagnata dalla creazione di nuovi posti di lavoro. Ci si chiede come mai il circolo virtuoso sviluppo-occupazione, che ha finora caratterizzato i cicli di espansione dell'economia, si sia improvvisamente, e forse definitivamente, interrotto. Questa novità non è solo italiana: nel mondo occidentale si parla ovunque di jobless recovery, negli Stati Uniti si sta sviluppando, addirittura, una nuova scuola di pensiero, provocatoriamente definita neo-luddista, alimentata da un'analisi critica dell'età informatica. Ora, anche se appare altamente improbabile che alle soglie del 2000 qualcuno voglia mettersi a distru~gere i computer emulando chi, oltre un secolo fa, faceva a pezzi i telai, la questione della stretta relazione tra innovazione teènologica e disoccupazione è diventata centrale per capire le ragioni della discrasia tra una forte crescita economica ed elevati tassi di senza lavoro. Questa tendenza appare sempre più evidente nel nostro Paese dove i drammatici effetti sull'occupazione, prima della ristrutturazione indus~riale, po~ della laq~ainnovaz10ne dei processi, sono stati ulteriormente accentuati dalla generale riduzione dei meccanismi di garanzia e di assistenza dello Stato sociale. A fronte di questa costante metamorfosi, frutto in larga misura della rivoluzione informatica, emerge la lentezza di aggiornamento, il ritardo nella piena comprensione dei fenomeni e nell'elaborazione di una strategia di intervento da parte della sinistra e delle parti più sensibili del mondo sindacale. Dolorosamente sorpresa dalla fine della fabbrica tayloristica, richiusa su se stessa per comprendere dove sono andati a finire gli operai, ancora convinta che la Fiat sia il centro del capitale, della produzione e quindi del monao, la sinistra balbetta di fronte a novità di tale portata da mutare completamente le relazioni tra lavoro e industria, i meccanismi di creazione del consenso e dei "valori". Pensavamo, fino a poco tempo fa, che l'innovazione tecnologica applicata all'industria, ai servizi, potesse garantire una progressiva liberazione dal lavoro, mantenendo e, forse, aumentando i livelli di occupazione. Immaginavamo che l'era dell' Information technology potesse determinare un inarrestabile miglioramento della qualità del lavoro e della via, un incremento del reddito e del tempo libero. Oggi la realtà è completamente diversa: il numero degli occupati è sempre più basso e, contestualmente, il numero delle ore lavorate aumenta.' C'è chi rimane senza lavoro e chi ce l'ha è costretto a lavorare molto di più del passato. La questione è planetaria, non solo italiana. L'applicazione e lo sfruttamento delle innovazioni tecnologiche determinano un fortissimo aumento della produttività ed emarginano il lavoro,
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