La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 5/6 - lug.-ago. 1995

ziativa serba, poi anche croata, ha presentato i musulmani bosniaci come "fondamentalisti" o "integralisti", "minoranza islamica del cuore dell'Europa cristiana". Né leprime centomila vittime, e neppure buona parte delle seconde centomila, sono state sufficienti per smentire quella menzogna. Non bastava che un milione di rifugiati avesse dovuto abbandonare le proprie case, bisognava che ce ne fosse un altro milione. Non c'è più stato un Santic I di fronte all'esodo dei musulmani ad alzare la voce per gridare: "Resta.te qui". D'altra parte il suo grido sarebbe stato vano: gli imprudenti che avesserpdeciso di restare sarebbero immediatamente diventati vittime. Il monumento che era stato eretto a quel bardo è stato abbattuto. I nuovi Ustascia hanno addirittura profanato la sua tomba. In seno all'intellighenzia, così spesso tradizionali ta e frustrata, sono rari coloro che pongono i valori dell'umanità al di sopra del nazionalismo. Per qualcuno sarebbe un atto di tradimento. Così la cultura nazionale si trasforma in ideologia dellanazione. Lascio agli intellettuali serbi la cura di denunciare i crimini innumerevoli e orribili .perpetrati in nome della "Guerra Serba", a cominciare dal tristemente noto "Memorandum" dell'Accademia Serba che ha fornito all'aggressione il suo programma. Per farlo, dovranno fare ricorso a una critica radicale, simile a quella che hanno saputo mettere in atto i più grandi spiriti della loro nazione. Mi riferisco a persone quali Svetozar Markovic, o Iovan Skerlic, o Marko Ristic, o, infine, nel corso di questa guerra, a Bogdan Bogdanovic e al "Circolo di Belgrado", troppo debole e soffocato dai media per essere ascoltato. Forse è la prima volta nella sua sto'ria che un popolo che ha combattuto con onore e coraggio per la propria ~opra':iv~nza si è la~ciat~ trascmare, ms1eme con 1 suoi fratelli montenegrini, in un'avventura vergognosa e abietta. È inammissibile, lo so, mettere sullo stesso piano da una parte il popolo che subisce le conseguenze di questa tragedia, e dall'altra i mandanti e gli esecutori di questi misfatti, si tratti della Croazia di Pavelle, ieri, oepure, oggi, della Serbia di Milosevic. Bisognerebbe, per cominciare a sciogliere questi nodi gordiani, che ciascuno dal canto suo si interrogasse, senza autogiustificazioni, sulla propria parte di colpevolezza o di responsabilità. Simili "traditori" del nazionalismo sono rari in ciascuna delle nazionalità ex Jugoslave. Il loro lavoro è ingrato e malvisto. È stato difficile mettersi sempre e soltanto dalla parte qelle vittime indipendentemente dalla loro origine, sia a Vukovar che a Dubrovnik, sia a Sarajevo che a Mostar. Dapprima ho perso la maggior parte dei miei amici serbi, quelli che non volevano "abbandonare i loro fratelli" o che trovavano altri alibi per non dissociarsi dalla politica dominante. Quando mi sono schierato dalla parte della Bosnia e di "Sarajevo, capitale del dolore" molti amici croati mi hanno voltato le spalle. L'emigrazione volontaria, o se si vuole una posizione "tra l'asilo e l'esilio" che spesso ho evocato, mi è sembrata moralmente meno compromet-· tente. È tuttavia, lo so, un modo forse inevitabile di trarsi fuori. In Herzer-Bosnia, dove sono nato e che ho sempre considerato come parte integrante della BosniaErzegovina, una e indivisibile, è scorso il sangue. Citerò in questa circostanza certi eventi che mi sembrano riassumere questa guerra nel suo insieme o esserne aspetti paradigmatici, senza pretendere di "ricostruirli in tutte le loro parti" come vorrebbe Clausew1tz. È stato l'eserciro che si dice Jugoslavo, comandato da ufficiali serbi fedeli al regime della "nuova Jugoslavia", che ha cominciato a distruggere Mostar. All'inizio i musulmani, i cattolici e gli ortodossi che abitano quella città, rispettivamente Bosniaci, Croati e Serbi, hanno sofferto insieme. Una parte dell'esercito croato, chiamato a difendere legittimamente il "suolo natale", si è ben presto rivoltata contro i su01 alleati musulmani, la cui solidarietà pareva sospetta. Quei difensori sono diventati a loro volta aggressori, poi: un buon nume- · ro di essi, seguendo una politica sbagliata e una predisposizione male orientata, sono andati oltre, fino a indossare di nuovo nere uniformi fasciste, e a intonare vecchi canti di guerra, ustascia. I Serbi di Mostar hanno dovuto per primi lasciare la città sulla N ereiva, fossero o non fossero legati alle brigate cetniche, che sprofondavano pesantemente nel crimine. La maggior parte dei cittadini serbi non aveva niente da spartire con quelli, ma ciò non è stato assolutamente mai preso in considerazione dai loro avversari. Gli estremisti di Herzeg-Bosnia se la sono presa sistematicamente con i musulmani,. continuando a f ersegui tarli e a massacrar i, a razziare i loro beni e a mettere migliaia di uomini in campi di concentramento all'eliporto, a Gabela, a Dretely o a Ljubuski, proprio vicino al santuario della Vergine di Medjugorié. C'era chi credeva di potersi giustificare ricordando che i Serbi erano stati i primi a costruire campi del genere, a Omarska, Magnatcha, Trnopllié, Cerska, come se i delitti degli uni potessero diminuire o rendere meno gravi quelli degli altri. Sulla riva sinistra della Neretva, gli abi.tanti, prevalentemente di origine musulmana, hanno vissuto, inflitto dagli ustascia, un calvario paragonabile a quello dei Serbi nel 1941. Donne, bambini e vecchi erano trattati da "balis" 2 da nazionalisti che nei loro confronti non avevano maggiore tolleranza di quanta ne avessero i nazisti con gli ebrei. Le moschee dell'Erzegovina sono state rase al suolo, proprio come quelle della Bosnia dove i cetnici hanno compiuto le loro devastazioni. Persino il vecchio ponte di Mostar, miracolo dell'architettura ottomana, dai tempi di Solimano il Magnifico, è stato distrutto. Il responsabile di un simile gesto criminale è stato ricompensato pubblicamente. Il presidente della repubblica croata l'ha promosso generale e l'ha inserito, non senza cinismo, nella delegazione che lo accompagna in occasione della sua "visita di riconciliazione" in BosniaErzegovina, nell'estate del 1994. Non dimentico nemmeno certe azioni di vendetta di cui furono vittime croati innocenti, originari della stessa Erzegovina, della Bosnia centrale o della Slovenia. I Bosniaci non potranno dimenticare né perdonare il male che è stato loro fatto. Sapranno dominare la loro ostilità nei confronti dei loro carnefici o la loro sete di vendetta? Non sarà facile. È tuttavia probabilmente il solo modo di scongiurarne la me-

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