La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 5/6 - lug.-ago. 1995

Sono testimone del fatto che, nell'area in cui opero, lo scandalo induce reazioni pericolose e sproporzionate. Penso a situazioni nelle quali il maltrattamento psicologico motiva un allontanamento del minore dalla sua famiglia: è spesso difficile valutare se è più intollerabile la violenza insita nel maltrattamento piuttosto che quella arrecata dall'allontanamento. Penso al caso in cui, sospettandosi il padre di abuso sessuale, viene deciso l'allontanamento della minore dalla sua casa, a meno che non venga ristretto in carcere il padre stesso. Penso al quattordicenne che viene arrestato perché ha fatto l'amore con una compagna di poco più giovane. Penso a quella bambina che il consulente psicologo non ha interrogato circa il rapporto con la donna che si era occupata di lei e che ha così precluso la ricostituzione di quel rapporto, per non arrecarle la violenza dell'investigazione. Potrei continuare, ma questi esempi sono sufficienti per argomentare che l'enfatizzazione della dimensione della violenza nelle fattispecie profilate tende a provocare la proliferazione della risposta giudiziaria ed una espansione della stessa ben oltre i suoi tradizionali confini. Io non contesto questo esito. Non posso, però, fare a meno di ipotizzare che ciò si verifichi, perché la società nel suo complesso non è in grado di "trattare" determinate disfunzjoni delle relazioni sociali che si scaricano in comportamenti violenti o ritenuti tali, se non delegando a ciò l'istituzion~ giustizia. Quale sia la logica e lo schema di funzionamento della giustizia è troppo noto. Negazio- ·ne della vendetta, appropriandosene, repressione della violenza, facendone uso; contrasto della forza, esprimendone una maggiore. Non sono teorizzazioni retrò, ma l'essenza del diritto moderno e, in particolare, del moderno sistema penale con la sua estrema ambivalenza: quella d1 "tenere insieme la violenza come malattia e la violenza come cura, in venenum che annienta e il venenum che, a giuste dosi, è antidoto che C1Jra"(riporto le suggestive espressioni di E. Resta, in La certezza e la speranza, 1992, con le quali suggerisce la metafora del pharmacon). . Se non è soddisfacente la strategia che ho descritto, neppure sono certo che lo sia l'altra strategia che mi pare di intravedere. È quella che prende avvio dalla messa in discussione delle concezioni fatalistiche della · violenza, quelle cioè che assumono come elemento costitutivo della struttura della personalità, ra~gressività, intesa come espressione della puls10ne di morte, che deve necessariamente esprimersi e che può tendere alla violenza e, infine, alla distruzione dell'altro (Freud). Questa "scuola di pensiero" configura l'aggressività come una possibilità di difesa e di affermazione di cui l'uomo dispone, ma non come l'unica, né come la più evoluta. A partire dalla considerazione che l'essere umano è dotato di competenze cognitive e adattive che gli · consentono di rielaborare le informazioni derivanti sia dal patrimonio genetico, sia dall'ambiente, si afferma che egli è in grado di valutare e decidere se adottare e persistere in un comportamento o se modificarlo o abbandonarlo. Il superamento del modello deterministico dell'istinto o della pulsione porta a valorizzare fortemente il modello cosiddetto informazionale, secondo il quale ciò che è decisivo nella determinazione al comportamento violento sono le informazioni che all'individuo provengono dall'ambiente (p. es. messaggi che legittimano l'aggressività o, addirittura, esaltano la violenza), nonché la rielaborazione attiva che l'individuo fa delle reazioni sociali al suo comportamento (approvazione-tolleranza-rifiuto). È sulla base di questo modello, molto succintamente e approssimativamente descritto, che nel 1986, a Siviglia, un grul?po di famosi psicologi, neurofisiologi, etologi e studiosi di scienze naturali di tutto il mondo elaborò una Dichiarazione (di Siviglia, appunto), la quale definiva scientificamente sbagliato dire che la guerra è una tendenza ereditaria ineludibile, che i comportamenti violenti sono geneticamente programmati nella natura umana, che l'evoluzione abbia dato luogo a una selezione favorevole al comportamento aggressivo, che gli esseri umani hanno un "cervello violento", che la guerra è causata dall'istinto. Concludeva "che la biologia non condanna l'umanità alla RIIONI F r:AITIVI

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