La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 4 - giugno 1995

eclatanti e visibili, le dinamiche conflittuali forse più appariscenti della corruzione e del disagio di una civiltà (e sceglie, poi, una "risposta" ovvia e reazionaria), J ervis privilegia una modalità diversa, un taglio - teorico e stilistico - più riflessivo ma solo apparentemente meno estremo. Enzensberger descrive una battaglia (e auspica l' arrivo della polizia). J ervis costeggia una regione in ombra; esplora i confini incerti di una situazione di stallo, di una crisi pubblica e privata molto più intima e forse più profonda. I "deficienti" di Enzensberger si stanno già massacrando nelle strade. Gli "idioti" di Jervis si costruiscono.da soli una micidiale trappola mentale. Enzensberger ha bisogno della violenza per raccontare il male. Jervis si può fermare prima: "non pochi indizi ci autorizzano a sospettare che esista in tutti noi la tendenza generale a fabbricare menzogne e semi-verità in cui fermamente crediamo" (p. 87). La patologia sociale, il paradosso culturale che Jervis denuncia si originano da circostanze incruente e da occasioni molto personali; i sintomi più gravi, gli indizi più allarmanti riguardano sempre la vita della mente: l'autoinganno, i pregiudizi, le illusioni e la malafede. Sopravvivere al millennio nasce anche da una straordinaria esperienza di ricerca sul campo e da una delusione. Alla fine degli anni Cinquanta, Jervis fece parte della piccola équipe multidisciplinare organizzata da Ernesto De Martino per studiare il "tarantismo" nella penisola salentina. Più di trent'anni dopo, il ricordo di quella vicenda diventa lo spunto per una riflessione sul presente. Nel '59, i lavori del gruppo di De Martino non avevano portato Y.QQ. a conclu'sioni univoche. Intellettuale curioso e apertissimo, De Martino era affascinato dalla "possibile. funzionalità culturale del tarantismo", dall'ipotesi ottimistica che il rito incongruo delle "tarantolate" rappresentasse per la comunità "un modello ottimale di gestione e di razionalizzazio- . ne di alcune devianze" (p. 17). Jervis non era altrettanto ottimista. Forse un tempo era stato così: Ma nel passaggio accelerato, v:iolento e incompleto alla modernità, il taràntis mo non conserva·va più nessun residuo emancipatorio, nessuna capacità di liberazione. "Inutile" per i singo- · li, il rito rivelava in controluce anche un disagio più ampio, una patologia generale della comunità: se una cultura "si affida a spiegazioni magico-ritualistiche ciò significa che è prigioniera di auto-inganni provenienti dagli strati meno consapevoli della sua psiche" (p. 17); che vive nell'illusione e nell'irrealtà. Ma sulla delusione antropologica si innestava già allora una perplessità forse più attuale. In fondo - aggiunge Jervis - il "tarantismo" era anche un pretesto. Non c'era la stessa "ritualità negativa", la stessa carica di malafede, la stessa micidiale miscela di illusione collettiva e di auto-inganno anche nei cerimoniali più innocenti della società del benessere e nei suoi comportamenti dominanti? Trent'anni dopo, questi frammenti di memoria si ricompogono in un strano mosaico senza figure. Per Jervis, il presente soffoca lentamente nella superstizione e nella stupidità. I primi anni Cinquanta, gli anni Sessanta, erano ancora una fase di attesa, di ottimismo e di "grandi speranze". Il panorama politico e morale, la cifra esistenziale, l'atmosfera civile degli anni Novanta ristagnano in una sorta di melma dolciastra venata di cinismo e di ipocrisia. Jervis - sia chiaro - non parla in nome del passato o della nos.talgia. Le· cose cambiano, natvralmente, e sono cambia- . 'te; abbiamo avuto molte opportunità, molte occasioni, ma le abbiamo sprecate. Siamo usciti dall'angustia delle "ideologie" ma questo non ci ha reso migliori, più aperti o - semelicemente - più curiosi; l'ottimismo, poi, si è annacquato nel risentimento; l'individualismo si è trasformato nella stupefacente mediocrità di un narcisismo caricaturale. Allora non è che il mondo si · sia degradato; ,però siamo più "stupidi" di pnma, e abbiamo paura, Jervis insiste molto lucidamente su questa crisi, su questo difetto dell'intelligenza.· Forse non è necessario parlare di "cultura della morte" o di "guerra civile". Enzensberger (o il Papa) avranno anche .le loro ragioni, ma il problema è un altro. Il fatto - forse - è che viviamo in modo troppo superstizioso, troppo irrazionale; che abbiamo troppo bisogno di rassicurazioni. Naturalmente, tutte le socieù, tutte le culture, prevedono una qualche misura di illusione, di malafede o di superstizione. Ma nello strampalato "supermercato dei conforti spirituali"(p. 29), nel clima new age, nella sdolcinata sensibilità terapeutica di questa fine secolo le risposte "ottimistico-consolatorie", le ric.ette magico-religiose, le forme più colladaute di rassicurazione battono troppo sfacciatamente il tasto dell'autoinganno, della "consolazione" e del narcisismo. "Scopri il sè segreto", ascolta il "linguaggio del cuore", "esci dalla crisalide" (se ti senti un verme) (p. 29). Gli slogan son~ s~ora~giantemente unifor_- rru, npet1t1vamente omogenei, sempre prevedibili: "la loro forza sta nel potere dell'autosuggestione, la loro efficacia, nel vendere al so~getto un'autoimmagine migliore, un supplemento di identità, nuovi titoli di nobilità". Ma l'oscurantismo, l'irrazionalità, il conformismo, la credulità hanno - osserva Jervis - anche altri (e peggiori) difetti. Accanto alla ricomposizione consolatoria, alla ridefinizione terapeutica (o religiosa), alla ricostruzione comunitaria di identità smarrite e sminuz-

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