La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 1 - febbraio 1995

ora demoralizzati e affamati - si erano trasformati in accattoni; ancora armati dei loro Kalashnikov, andavano mendicando un po' di cibo. Abbandonati carri armati, lanciarazzi, areoplani, vetture e artiglieria (i mucchi di rottami si possono .ancora trovare nella periferia della città), i soldati si dispersero in tutte le direzioni. A piedi, a dorso di mulo, con gli autobus tornarono nei loro villaggi. Chi attraversa l'Etiopia può incontrare ancora oggi dei giovani sani e forti seduti oziosamente sui gradini o sulle panche di qualche miserabile e oscuro bar lungo la strada. Sono i reduci del grande esercito di Menghistu, di quell'esercito che avrebbe dovuto conquistare tutta l'Africa e che venne completamente distrutto nel corso di una sola giornata dell'estate del 1991. . Siamo qui per vedere Shimelis Mazengia. Era uno degli ideologi del regime di Menghistu; membro del Politburo, segretario del Comitato Centrale per le questioni ideologiche; una specie di Suslov étiope. Mazengia ha quaranticinque ·anni. Intelligente, sceglie con cura le sue parole. Indossa un abito sportivo, celeste. Qui i detenuti sono indistinguibili dai civili. Il governo non ha soldi p-er le uniformi da detenuto. Chiedo a una della guardie se i prigionieri non cercano mai di scappare, dato che una volta fuggiti dalla prigione potrebbero benissimo confondersi con i.passanti nella strada. Scappare? Mi guarda con autentica incredulità. Qui - mi dice - hanno la loro ciotola di minestra. Fuori rischierebbero di morire di fame come tutti gli altri. I prigionieri, sottolinea, sono nostri nemici, non c'è dubbio. Ma non sono idioti. Mazengia mi dice che la fuga di Menghistu prese alla sprovvista anche le persone che gli erano più vicine. Menghistu era infaticabile, lavorava notte e giorno, era evidentemente indifferente ad ogni preoccupazione di possesso materiale. La sua unica passione era il potere, il potere assoluto. Era incapace di compromessi, di qualsiasi forma di flessibilità di pensiero. Menghistu considerava i massacri - il cosidddetto terrore rosso che ha portato alla decimazione della popolazione del paese - una caratteristica necessaria del potere. (Menghistu è considerato responsabile di almeno 30.000 morti; ma c'è anche chi parla di cifre più alte, fino a 300.000). Alla fine degli anni Settanta, attraversando la città in macchina alle prime ore del giorno, ricordo di aver assistito al "raccolto notturno", la rimozione dei corpi delle persone uccise durante la notte. Sono curioso di sapere come Mazengia giudichi adesso il proprio ruolo di primo piano in un governo screditato, il cui crollo ha condotto a un simile scenario di miseria e di morte. Mazengia mi risponde filosofeggiando. La storia - dice - è un processo complesso. Fa degli errori. Cambia strada, cerca, devia, talvolta si inceppa e si perde in un vicolo cieco. Bisogna avere gli strumenti giusti per giudicare il passato. Solo il futuro sarà in grado di dire chi aveva ragione. Assieme ad altri 406 detenuti, tutti legati - come dicono qui in Etiopia - al "vecchio regime", Mazengia è in carcere ormai da tre anni e non conosce quale sarà la sua sorte. Verrà trasferito in un altra prigione? Sarà interrogato? Condannato a morte? Rilasciato? Anche il governo sembra alla prese con lo stesso interrogativo: cosa fare di questi prigionieri? Siamo seduti in una piccola stanza; dovrebbe esserci un uomo di guardia. Ma nessuno origlia la nostra conversazione, nessuno pretende che smettiamo. La gente va e viene, costantemente, BibliotecaGinoBianco caoticamente; sul tavolo accanto squilla il telefona, ma nessuno si prende il disturbo di rispondere. Prima di partire, chiedo a Mazengia di mostrarmi la sua cella. Mi guida lungo un cortile fiancheggiato da gallerie a due piani. Le celle corrono lungo le gallerie; le porte delle celle danno sul cortile. C'è una folla di persone. Scruto i loro volti. Sono i volti di professori di università, dei loro assistenti, dei loro studenti. Il regime di Menghistu era sostenuto da gente che credeva in modo fanatico e idealistico nella versione albanese del socialismo realizzata da Env~r Hoxha. Quando Tirana ruppe con Pechino, si cominciò ad ammazzare la gente nelle strade di Addis Abeba. Tale era la forza delle loro convinzioni che gli etiopi filo-albanesi presero a sparare sui maoisti. Il bagno di sangue durò un mese. Ma dopo la fuga di Menghistu e la dispersione dell'esercito é il ritorno a casa dei soldati, gli accademici restarono in città: non sapevano come andarsene. Fu abbastanza facile prenderli e rinchiuderli in questo cortile affollato, brulicante di gente. Lontano dall'Africa Sfogliando un numero dell'estate 1993 del periodico somalo "Hal-habur" (Rivista di letteratura e cultura somale) mi accorgo che quindici dei diciassette autori - i maggiori intellettuali somali - vivono all'estero. Il problema sta qui. La maggior parte degli intellettuali africani non vivono più sul continente. Perseguitati nel loro paese, gli intellettuali africani non cercano asilo in un altro stato africano. Li puoi trovare a Boston, a Ginevra, a Londra, a Parigi, a Roma. Quelli che· restan0 in Africa sono soltanto, in fondo alla scala sociale, le masse ignoranti dei contadini sfruttati e intimoriti e - al vertice - i membri di una burocrazia pesantemente corrotta o di un esercito arrogante (il lumpen-militariat, come lo chiama lo storico ugandese Ali Mazuri). Come farà il continente africano a svilupparsi senza gli intellettuali della sua classe media? Forse allora? Visito l'università di Addis Abeba, l'unica del paese. Do un' occhiata alla biblioteca, l'unica del paese. Gli scaffali sono vuoti. Non ci sono libri o giornali. È così anche in molti altri stati africani. Una volta c'era una buona biblioteca a Kampala (e in tutto ce n'erano tre). C'era una buona biblioteca anche a Dar-es-Salaam. Non c'è più niente. Il territorio dell'Etiopia è esteso quanto quelli della Francia e della Germania e della Polonia messi insieme. Attualmente, l'Etiopia ha una popolazione di cinquanta milioni di persone. In cinque anni -si prevede - la popolazione salirà a più di sessanta milioni; ancora pochi anni e supererà gli ottanta milioni. Forse allora? Almeno un libro? La bibbia africana ad Addis Abeba Quando ho tempo, faccio un salto alla Africa Hall, un enorme edificio monumentale sulle colline della città. Nel maggio del 1963 l'Africa Hall accolse il primo vertice africano. Io c'ero, e vidi tutti i grossi nomi del tempo: Nasser, Nkrumah, Haile Selassiè, Ben Bella, Modibo, Keita. Si incontrarono in questa grande sala dove adesso troverebbero solo dei ragazzi che giocano a ping-pong o delle donne che vendono giacche di pelle. Ogni volta che vengo in visita, c'è qualche

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==