Rivista popolare di politica lettere e scienze sociali - anno XV - n. 13 - 15 luglio 1909

RIVISTA POPOLARE 355 fenomeni nazionali, ce ne sono ancora dei cosmopoliti, dinanzi ai quali le frontiere, come le distinrioni di razza, diventano provvisiorie. I capitali - e le doti l - non hanno patria, sono ora più cosmopoliti che la scienza stessa, e cosmopolita è un fattore sodale di cui gl'in tellettuali-ed a torto essendo così proletarì in Italia ! - mostrano troppo poco riguardo: il lavoro: questa forza immensa, gagliarda, possente, questa leva del progresso umano, questa energia vigorosa, che si sprigioni dai muscoli o dal cervello, costituisce sempre la più invidiata ricchezza, e la più bella gloria per una nazione civile. Non è quindi, ricchezza soltanto quella mobiliare o immobiliare, ma vi è un'altra ricchezza più bella, più vivida; la ricchezza uman~. Ebbene, anche qui il bilancio di uno stato non deve essere in disavanzo: il passivo, non deve superare l'attivo, altrimenti questo paese si avvia inesorabilmente all' abisso. E ciò non solo dal punto di vista economico. ma, come si è veduto, anche da quello morale. Infatti, fra un'infinita serie di mal~, che ne deriveranno, si vedrà anche aumentare la delinquenza, che è doveroso per ogni paese eliminare, o almeno ridurre. Ed oramai i psicologi si ;=1ccordano nel riconoscere la grand.! importanza del lavoro per lo sviluppo della moralità individuale (Nabokow). Ed io perciò voglio augurarmi che lo sviluppo dell'attività economica, possa risanare la nostra Patria da quei mali che la deturpa no, io voglio augurarmi che l'Italia esca un giorno vivida e rigogliosa alle glorie incruente del lavoro umano, come narrano l'Hugo e il Loria, del giovine Mazeppa; simbolo stupendo .e pitroresco del movimento storico dell'umanità. E così dalla lunga tirannide del feudalismo opprimente ogni libera attività, ed ogni libera energia; compiendo una secolare evoluzione, l'Italia nostra darà lìnalmente vita al suo bel sogno di operosità e di grandezza, in un avvenire migliore , facendo diminuire la passività economica, la criminalità, la camorra! MANLIO ANDREA D' AMBROSIO ------------=-=-=-=-=-==-----=-= ============= Il cinismod'Orazio? Chiedo venia ai lettori di questa operosa Rivista, se penso d'intrattenerli brevemente su d'un vecchio, barbuto quesito di esegesi oraziana, intorno al quale la critica s'è data da fare da un pezzo e che pnr, soltanto ora, sembra entrato, come si dice, nella sua fase risolutiva. La venera bi le età della vexata quaestio non m' induce a rinunzia.re a questo mio seri tterello, perchè il finissimo poeta augusteo cui si riferisce, è sempre fresco di giovinezza, sempre caro e presente allo spirito di quanti han vivo il senso d' un'arte tra le più squisite e vere e belle di tutta la latinità. Mi si permetta, innanzi t11tto, un'osservazione d'indole generale. Il Medio-Evo era incline, come si sa, ad ordire intorno alle persone degli uomi1.i famoei-si chiamassero Catilina o Alessandro, Virgilio o Stazio, Attila o Carlo Magno - la tela delle leggende, or bizzarramente arruffate e scapigliate, or illeggiadrite dalla luce di poetici colori ; a noi moderni 1100 par vero - o io m'inganno - di poter battere le mani dall'allegrezza, quando si riesca a scovare uu motivo qualsiasi, reale o inesistente, di biasimo nella vita degli uomini celebri. Il Petrarca fu un cattivo cittadino, ha sentenziato qualcuno; l'Ariosto fo un volgare adulatore, un succhione da disgradarne Pietro Aretino, ha concluso qualch'altro; Orazio, ah! Orazio fu ... un cinico della più bell'acqua, hanno asserito parecchi. Vediamo. Non ista.rò a rifare, chè non sarebbe nè il cai:.o, nè il luogo, la dibattn ta questione oraziana, tanto più che - mi si passi l'auto-citazione - ebbi ad occuparmene di proposito in un opuscolo pubblicato or son quasi sei anni. Ricorderò solo ehe l'accusa di cm1smo, ond' è stato da luogo tempo gratificato il poeta latino, si fonda, più che su altro, su d'un luogo dell'ode VII del libro II, dove Orazio, richiamando un suo Rmico e già compagno d'armi ai ricordi della battaglia di Filippi, cui egli partecipò fra l'esercito rep11bblicano, confessa. d'esser fuggito, relicta non bene parmula: espressione che comunemente s'interpetra e lasciato, cosa non bella! lo scudo •. Io discussi, allora, e rigettai questa tapina in terpetrazione del celebre passo, la quale fa davvero torto allo spirito del Venof-lni o; nè credetti di poterne accogliere alcun' altra di quelle che pur miravano a scusare il poeta: non q11elle puramente esegetiche del Paldam (dopo che lo scudo fu du tutti abbandonato), e del Pascoli (lasciata sola la cavalleria); non quelle più spiccatamente d'indole, dirò, morale del Miìller che ricorda Annibale fog~itivo a Zama e Napoleone a Water!, o, del Dillemburger che si appella alla festivitas del poeta, del Ci ma che mette in rilievo il carattere di quella guerra, .eh' era lotta ci vile di parti ti, non lotta nazionale contro il barbaro, e così via. Questo affare dello scudo abbaodonato è cosa più semplice che non paia. Anche a prescindere, infatti, dalla non casuale corrispondenza dr! passo or~ziano con un altro celebre passo del greco Archiloco che Orazio avrà dovnto certo aver sott'occhio, e da parecchie altre considerazioni di cui fac(:io grazia ai lettori, è ovvio osservare che il poeta latino, mediante quella litote del non bene, giudiea implicitamente l'opera sua, anzichè farsene, CJ uasi, cinicamente bel lo, com' altri sostie,w. Or t11tto sta qui. Come bisogna interpetrare il non bene? Nel1'01Juscolo citato p::i.rven1i di poter soi,tenere che la migli<,re interpetrazione era qnella datime dall' Occioni che spiegava senza ragione, stoltamente, sulla 8(:orta delle comuni testimonianze degli storici della battaglia di Filipµi -- Appiano, Dioue, Floro, Plutarco - concordi nell' affermare che « i repubblicani vinci1·ori avevano occupato gli Rlloggiamenti dei Cesariani e che CaAsio si fece uccidere, perchè prese per nemica la cavalleria sua che accorreva ad annunziargli la lieta novella· La sconfitta !:!arebbe avvenuta in effetto a un brutto gioco della sorte >. Questa interpetrazione basterebbe già da sola a purgare perfettamente il poeta da ogni macchia di cinica viltà. Anche Arcbiloco dice d'aver abbandonato lo scndo non volendo che su per giù è il non bene oraziano; nell'una e neÌl'altra es[Jressione io sento un rammarico, non uno scettico sorriso. Nè si dica che, cosi intendendo le cose, si finisce con l'accusare di troppa fretta il poeta, perchè nella fuga intrapresa· dagh altri e senza 1tn motivo> può benissimo esser travolto chicchessia. Ma è poi necessario ritenere che un vinto, un fuggitivo, il quale affermi di aver lasciato lo scudo sul campo di battaglia, anche senza aggiunger altro, dia prova di cinismo nel la confessione sua? E chi ci dice che l'accenno allo scudo non abbia in Orazio un valore puramente letterario, fraseclogico, com'è in quel luogo di Samuele, dove, David, lamentando la sconfitta del popolo d'Israele, dice tra l'altro: e quivi è stato gittato via lo scudo dei prodi, lo scudo di Saulle ... ?> (8am. II, 1). Ma il punto, vorrei dire, definitivo della questione non è ancor qul. L'interpetrazione, genialissima, dell'Occioni non era, fino a poco tempo- fa, suffragata da esempi linguist.ici; la via al dibattito era setnpre aperta. Non è, dunque, senza molto piacere eh' io ho vista nel Fase. 9 del Marzo 1909 del Bollettino di Filologia

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