Rivista popolare di politica lettere e scienze sociali - anno XIII - n. 7 - 15 aprile 1907

178 RIVISTA POPOLARE I principii dellalegislazione dellavoro Esiste una stridente contradizione e fatta per disorientare gl'intelletti, tra gl'insegnamenti economici nella maggior parte delle nostre scuole e la pratica legistativa in tutti gli Stati in cui J' industria è sviluppata. L'economia politica classica, restata cioè allo stato di scienza matematica, astratta ed auto· noma, conclude coll' astensione, coll' inerzia dei poteri pubblici nelle relazioni tra capitale e lavClro. Essa erige il (( lasciar fare, lasciar passare ,, a dogma intangibile. Senza preoccu - parsi del mezzo morale, politico e sociale e delle sue incessanti trasformazioni, essa afferma che il lavoro è libero e che la concorrenza senza freni nè limiti sia tanta necessaria nel1' ordine economico come in quello naturale. Nello stesso tempo che la scuola si cristallizzava così nelle sue formule teoriche, la vita obbediva alle leggi della propria conservazione e del suo sviluppo , e sì può dire che la legislazione che, in debole misura ancora, ha livellata la ineguaglianza e le servitù di fatto unite nel passato, è entrato successivamente nel nostro diritto pubblico per la porta della pietà, del timore, della giustizia: pietà umana per i miseri asserviti alla industria, timore della loro rivolta esasperata , giustizia infine resa ai loro diritti di uomini e di cittadini. In vano l' economia politica pura inocava le leggi naturali e giustificava Malthus con Darwin ; I' empirismo politico e sociale fu più realmente scientifico di essa stessa, poichè era nata dalla necessità sociale, dal confronto dei fenomeni economici cogli altri fenomeni sociali e su tutto dalla loro azione reciproca. La pratica, dunque, la vinse sulla teoria. Certamente è vero, teoricamente, che la libera concorrenza, espressione economica della lotta per la vita, elimina i meno atti alla produzione e che, ogni prodotto essendo destinato al consumo, ne risulta in fine un vantaggio per l' insieme della società. Ma la realtà delle cose è più complesa della teoria. Quando la manifattura inglese e francese, durante tutta la priffi'B metà del XIX secolo adibivano al lavoro notturno fanciulli di 3 e 6 anni, per resistere alla concorrenza sfrenata che si fac~van_o per la conquista del mercato, spossavano le donne ed mandivano in esse la sorgente della vita; allorchè questa lotta cieca tra fabbrcanti portava a crisi di sopraproduzione che si traducevano in disoccupazione omicida per le masse operaie attirate nelle manifatture nel periodo d' attività e gettati su I lastrico quando i magazzini erano colmi ed il mercato saturo dei prodotti del loro lavoro - ove era la libertà per quegl' infelici ai quali la legge rifiutava sin la facoltà di riunirsi per discutere le condizioni del lavoro ed il prezzo del salario ? Ed •n che cosa erano meno atti a vincere, quegli umili soldati 1 dell'industria che non partecipavano alla vittoria <lei loro capi e pei quali la disfatta di costoro era la fame? Non erano essi, al contrariò, colpiti perchè erano stati troppo docili al pungolo che li spingeva a produrre senza misura? L'economia politica lasciò fare ai legislatori, lasciò passare le loro leggi non st!nza proteste o resistenze. Ma si può senza timore nè rimpianti applicar loro in questo caso la loro formola favorita. Vi era contradizione tra le teorie ed i fatti; questi, essendo più forti ruppero le fragili barriere di carta. I fatti avevano dunque ragione, poichè furono forti. L' inchiostro degli economisti ortodossi scorr~ ancora , ed anche con abbondanza, ma la legge ha ascingato da più di cinquanta_ anni le lacrime dei piccoli operai di 5 anni che erano frustat 1 la notte per tenerli svegli al lavoro! ♦ I princ1p11 della legislazione del lavoro hanno le loro origine nelfa dichiarazione dei diritti dell' Uomo e del Cittadino. Ciò sembra a prima vista un paradosso, ma non si deve obliare che le verità storiche e sociali presentano lo stesso aspetto delle verità scientifìcbt': Copernico e Galileo sembrarono, essi stessi, sostenere un paradosso stabilendo, contro la testimo nianza di osservazioni unanimi e secolari che il movimento del sole relativamei1te al nostro pianeta, non era che un' apparenza, e che in realtà questo gravita intorno a quello. lo vorrei immediatamente darne la prova, ma non occorre, prima, esaminare le apparenze contrarie alla mia tesi. In primo luogo la dottrina dello intervento dello Stato nei rapporti tra lavoro e capitale, non si oppone alla lettera stessa del testo contenuto nella dichi_arazione dei diritti dell'Uomo, e he sembra contrasti coi principii di libertà che essa afferma. Dico sembra perchè se prendiamo la definizione stessa della libertà in questa carta del mondo moderno, definizione negativa e piuttosto limitativa, troviamo che (( la libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoccia ad altri >\. In questa definizione la legge apparisce come una limitazione della lib.;rtà naturale. Dirò subito perchè non posso aderire ad una tale definizione che pone la libertà nello individuo e oppone l' individuo e la sua libertà alla società ed alle sue leggi. Ci apparisce immediatamente che la libertà così definita dai redattori dei diritti doveva dividere gli uomini del nuovo re - gime in partigiani della libertà naturale ed in partigiani della legge, gli uni e gli altri si accordano su di una definizione comune; i primi per estendere il dominio della libertà inducendo quello della legge , i secondi per estendere quello della legge a spese della libertà naturale. Questo generale consenso su di una definizione metafisica deHa libertà ha creato due scuole tra gli uomini ugualmente animati dal desiderio di dirigere la società nel senso del progresso materiale e mentale collo svi - luppo industriale e la cultura generale , colla eguaglianza ci· vile e face~do della capacità l' unica condizione di accesso alle pubbliche funzioni. Per la prima ·di queste scuole, -che si in - titola liberale , le leggi, essendo una limitazione della libertà che ciascuno porta in sè, I' ideale è di limitare le leggi allo stretto minimuru. Fatalmente la seconda scuola fu punita per avere accettato questo postulato comune. Bene o male non ostante il suo intervento e del fine di libertà reale che voleva raggiungere, essa fu dichiarata avversaria della libertà. Non è, in effetti, contraddittorio il pretendere di far nascere la libertà dalle sue limitazioni e restrizioni ? Vedremo , tra poco , che tale contraddizione è solo apparente. Riteniamo, pel momento, che vi siano liberali che sembrano voler sviluppare la libertà e dei democratici che sembrano volerla restringere. Costoro , evidentemente, riguardo ai primi, avranno l'aspetto di andar a contro senso del progresso generale , in un mondo in cui l' aspirazione alla libertà ha guadagnato perfino i più umili membri del corpo sociale. Limitare la liber~à , anche in nome dell' interesse pubblico, significa volere ristabilire le costrizioni dell' ancien regime ; pretendere costruire l'avvenire col materiale del passato. L'antico regime regolamentava strettamente il lavoro e la produzione ; ogni intervento dello Stato nei rapporti tra lavoro e produzione apparirà dunque come un ritorno alle pratiche del1' a11tico regime come, una negazione dei principi della Rivoluzione proclamati colla dichiara done dei diritti. Tale ritorno è solo apparente. In che cosa consisteva , in effetti, l'intervento pubblico nei rapporti economici dell'antico regime, e in che cosa consiste oggi? Quali principi presiedevano alle legislazione prima della Rivoluzione e quali principi assolutamente differenti, opposti anche vi sono stati introdotti dopo? Ecco delle questioni di cui non si è mai curata la metafisica del liberalismo e che la democrazia stessa, ancora prigioniera oggi di questa metafisica, non posa nettamente , poichè essa è ancora intenta a sostenere la tesi insufficiente e pericolosa dell'utilità generale e della comune salvezza che possono ricondurci tanto facilmente alle antiche e nefaste teorie della ragione di stato e del sagrificio dell' individuo alla società.

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